Rivoluzione virtuale

01 Lug 2014

Massimo Giannini

Prendete un qualunque manuale di diritto. Consultate il capitolo “fonti normative”. Cercate la voce “linee guida”. Non la troverete. Dunque, dal punto di vista giuridico, al Consiglio dei ministri non è successo nulla. La sede è ufficiale, la rivoluzione è virtuale. Il governo “parla” di riforma della giustizia. Non “approva” la riforma della giustizia. Accenna un “indice” generico. Non licenzia un provvedimento legislativo.

Renzi2Prendete un qualunque manuale di diritto. Consultate il capitolo “fonti normative”. Cercate la voce “linee guida”. Non la troverete. Dunque, dal punto di vista giuridico, al Consiglio dei ministri non è successo nulla. La sede è ufficiale, la rivoluzione è virtuale. Il governo “parla” di riforma della giustizia. Non “approva” la riforma della giustizia. Accenna un “indice” generico. Non licenzia un provvedimento legislativo.

È una differenza sostanziale, che lo spin renziano tende a dissimulare. Ma nella giustizia, come nell’economia, è necessario distinguere con rigore i risultati dagli obiettivi. Nel metodo, sarebbe troppo facile ricordare le promesse fatte e tradite. Era il 17 febbraio, e Renzi aveva appena ricevuto l’incarico da Napolitano, quando annunciava il suo famoso “cronoprogramma” da “una riforma al mese”: legge elettorale e Senato a febbraio, mercato del lavoro a marzo, Pubblica Amministrazione ad aprile, fisco a maggio, giustizia e Welfare a giugno.

Da allora il premier non ha “arretrato di un millimetro”: “La riforma della giustizia si fa entro giugno”. L’ha giurato e rigiurato: il 30 maggio in conferenza stampa a Palazzo Chigi, il 31 maggio in un’intervista alla “Stampa”, il 1° giugno al Festival dell’economia di Trento, il 7 giugno alla “Repubblica delle Idee” di Napoli, il 13 giugno dopo il Consiglio dei ministri, il 14 giugno all’assemblea del Pd. L’ultima promessa se l’è intestata Maria Elena Boschi il 20 giugno: “La riforma della giustizia sarà al Consiglio dei ministri del 30”.

Il fatidico 30 è arrivato. Com’era prevedibile, la riforma non c’è. Ci sono, appunto, le “linee guida”. Le “dodici palle” buttate in campo dal ministro Orlando, come le ha definite lo stesso Renzi, tanto per dare più credibilità al progetto. Dove rotoleranno queste “palle”, nei prossimi due mesi di “discussione”, nessuno lo può sapere. Ma questo, più che un grande esercizio di “democrazia partecipata”, ha l’aria di essere un astuto escamotage per comprare tempo e per vendere una merce che non si possiede. Come accade spesso a Renzi, affezionato a una visione quasi schopenaueriana del “governo come rappresentazione della volontà”. Un leggero vizio nel dispiegamento della leadership, se è vero che questo metodo lo ha sempre adottato anche da sindaco a Firenze. Ma anche un pesante fardello imposto dall’Europa, se è vero che nelle “Raccomandazioni all’Italia” approvate dal Consiglio europeo venerdì scorso si legge, al punto 11 di pagina 9: “La corruzione continua a pesare in modo significativo sul sistema produttivo… C’è bisogno di rivedere i tempi dell’istituto della prescrizione. Un’effettiva lotta contro la corruzione richiede il conferimento di poteri adeguati all’Autorità Nazionale Anti-corruzione. Persistono inefficienze nella giustizia civile e l’impatto delle misure adottate avrà bisogno di essere attentamente monitorato”. Dunque, nella settimana in cui assume la presidenza di turno dell’Unione, è chiaro che l’Italia non può presentarsi a mani vuote di fronte all’Europa, anche sul tema della giustizia. E dunque le “linee guida” sono meglio di niente.

Nel merito, i “titoli” dell’indice renziano sono condivisibili. Dimezzare i 5 milioni di cause arretrate nel civile è doveroso. Com’è doveroso per il Csm fondare la progressione di carriera sul merito e non sulle correnti. Inasprire le norme sul falso in bilancio e l’autoriciclaggio è urgente. Com’è urgente accelerare il processo penale e allungare i termini della prescrizione. Una forma di responsabilità civile “indiretta” per i magistrati può essere opportuna. Com’è opportuna una disciplina più stringente sulla pubblicazione delle intercettazioni. Ed è bene che su una materia così sensibile il governo rinunci a diktat che riecheggiano le leggi-bavaglio di Berlusconi.

Ma a Renzi, che chiede “consigli” ai giornalisti, basterebbe ricordare quello che scriveva Giuseppe D’Avanzo su questo giornale, l’11 giugno 2008: “Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice, alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori…”.

Com’è chiaro da queste parole, non è vero che in Italia sulla giustizia “da 20 anni si litiga senza discutere” come sostiene il premier, affezionato all’idea che dal 1994 in poi si sia combattuto un “derby ideologico” tra fazioni (e non si sia invece consumata l’aggressione sistematica dell’esecutivo contro il giudiziario, attraverso il braccio armato e servente del legislativo). Durante il Ventennio berlusconiano molto è andato distrutto. E per questo molto si è discusso. Ma molto si è anche proposto, per chi si fosse preso la briga di studiare testi e ricostruire fatti. Fino a pochi giorni fa, disegni di legge sull’autoriciclaggio e sulla prescrizione lunga erano già in discussione in Parlamento. Li ha congelati proprio Renzi, rivendicando legittimamente al governo il diritto-dovere di varare una “riforma organica”. Ma proprio per questo, adesso, aspettiamo quella, non le “dodici palle” di Orlando.

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