Bombe sulla città

16 Mag 2014

Quarto capitolo dei racconti di Sandra Bonsanti su Firenze durante la guerra. Nei giorni decisivi in cui saltarono i ponti sull’Arno la famiglia Bonsanti e molti altri erano rifugiati in Palazzo Strozzi. Arrivarono gli invasori, e nacque una convivenza da incubo.

FirenzebombeERAVAMO tanti, tanti erano arrivati nelle ultime ore, appena proclamato lo stato d’emergenza, a rifugiarsi nel Palazzo: sfollati da altre parti della città insieme agli abitanti delle nobili dimore di via Tornabuoni, e di via della Vigna. Forse era lo stesso istinto che aveva portato nei secoli i cittadini a cercare rifugio nei palagi della loro città quando arrivavano i barbari invasori. Mio padre studiava con altri uomini una possibile via di fuga attraverso la rete fognaria che arrivava in qualche angolo del sotterraneo. Passavano le ore, nel cupo frastuono delle cannonate e dei ponti che uno alla volta (ma quanto resistette, il ponte a Santa Trinita!) si adagiavano sul fiume col peso della loro storia gloriosa. Pare che fosse stato Hitler in persona a decidere la distruzione, salvando il ponte “più artistico”, cioè il Ponte Vecchio che era stato però minato. Una foto storica ritrae il Feldmaresciallo Kesselring, il “Camerata Kesselring” come lo chiamò Calamandrei, mentre fa un sopralluogo sul ponte il 3 agosto.
Tantissimi altri cittadini avevano “occupato”, nelle ore della battaglia di Firenze, Palazzo Pitti. Ma lì si trattò di una cosa molto più organizzata che a Palazzo Strozzi: c’erano gli architetti, prima di tutto: Gamberini, Michelucci, Baroni, c’era Roberto Longhi con Anna Banti, c’era Carlo Levi, che descrivendo quella disperata umanità parlò di un mondo “brulicante di uomini, avvicinati all’improvviso gli uni agli altri dal destino incerto, uniti dall’attesa di avvenimenti terribili”.
La nostra vita a Palazzo Strozzi, fra il primo e il 3 d’agosto, era stata occupata nel tentativo di accamparci e di fare conoscenza con gli altri rifugiati. Anche io avevo un compito, facevo parte di quelli incaricati di andare alla fontanella a prendere l’acqua: mi hanno raccontato che si vedeva aprirsi il gigantesco portone del Palazzo e sgusciarne fuori un esserino con un fiasco in una mano e uno nell’altra. Io ricordo che era molto difficile vincere l’istinto che mi portava a sbatterne uno contro l’altro, ma i fiaschi erano una delle cose più preziose e dunque dovevo stare molto attenta. Dove era la fontanella? Ho sempre pensato che fosse all’incirca dove era Neuber. Invece so che bisognava andare fino a Piazza Vittorio (Piazza della Repubblica). Scherzi della memoria. So per certo che ci voleva tanto tempo per riempire un fiasco, l’acqua scendeva quasi goccia a goccia. Poi tornavo a Palazzo Strozzi, uno spiraglio si apriva e venivo accolta da un abbraccio. Credo di aver imparato allora il valore dell’acqua… La stanza della direzione fu adibita a dormitorio: tutti distesi per terra, io proprio sotto le due finestre che danno sulla piazza.
Così fino al 3 agosto, quando alle due del pomeriggio ci furono date tre ore per fare “provviste” (ma dove? E di che cosa?) e chiudersi in casa, finestre e porte sbarrate. Ho saputo anni dopo che mio padre e molti altri fiorentini accolsero gli ordini del 3 agosto quasi con un sentimento di sollievo: era un segnale molto chiaro che gli alleati si avvicinavano (forse erano già arrivati, di là d’Arno) e che i tedeschi si preparavano a resistere e poi a ritirarsi. Insomma, quanto avremmo potuto sopravvivere senza scorte, senza acqua, chiusi nelle cantine del cuore della città?
Dopo fu chiaro che le avanguardie alleate erano già quasi a Porta Romana. Sul tardo pomeriggio cominciarono le esplosioni, particolarmente forti quelle che sentono i fiorentini chiusi a Pitti. Un racconto di quei giorni è nel testo importante di Gianluca Belli e Amedeo Belluzzi (“Una notte d’estate del 1944”). Carlo Levi scende dall’alto di Boboli dove sta discutendo col comandante militare per l’Oltrarno verso il palazzo e racconta: “L’ombra copriva ormai i prati, bruni nel lunghissimo tenero crepuscolo d’estate”.
Ma noi eravamo di qua d’Arno… Le ore e i giorni che ci aspettavano prima di intravedere, anche noi, i “patrioti” e le pattuglie alleate come poterono fare invece quelli di Palazzo Pitti sin dalla sera del 3 agosto, erano ancora tanti e pieni di sofferenza. Mentre quella sera mio padre con gli storici portieri di Palazzo Strozzi, i coniugi Bertini, sbarra il portone, nel palazzo accanto, sopra il cinema Odeon (allora locali della società Larderello) si barrica il comando militare del Comitato Toscano di Liberazione.
Le testimonianze di chi riuscì a guardare il cielo di Firenze, verso le dieci di sera, concordano nel raccontare che esso fu solcato da grandi nuvole di fumo, nuvole rossastre mentre i boati facevano tremare le case e le strade: i tedeschi stavano distruggendo gli antichi palazzi sull’Arno, via Por Santa Maria divenne un cumulo di macerie.
Laggiù, nei sotterranei di Palazzo Strozzi, oggi divisi fra locali della Strozzina e scaffali della biblioteca, nessuno dormiva: ogni esplosione veniva commentata. Poi ci fu un boato che ci scosse tutti: una cannonata tedesca aveva colpito il palazzo sul fianco sinistro guardando dalla piazza. La sbrecciatura che mio padre e Gadda, nel suo ruolo di ingegnere, tennero sotto osservazione a lungo, per vedere se si allargasse, se fosse pericolosa, è ancora lì: mi rincuora vedere che nulla è cambiato e che il tempo non si è portato via quel segno inequivocabile della grande battaglia di Firenze, di quella notte fra il 3 e il 4 agosto del 1944.
A un certo punto di quella notte che non aveva mai fine, sentimmo sulla nostra testa il rumore degli scarponi chiodati: sinistro, metallico, minaccioso, definitivo. Non so come definirlo, ma se lo sentissi oggi lo riconoscerei, senza incertezza, come testimoniano tanti altri che lo udirono allora.
Il portone aveva ceduto, e i soldati della divisione Goering stavano entrando nel cortile. Cominciarono momenti di panico: loro urlavano ordini, mia madre era la sola a capirli. Dovemmo risalire la scaletta e sfilare uno ad uno con le mani in alto. Non ricordo nulla dei sentimenti di allora. Forse non c’era nemmeno tempo per aver paura, dovevamo ubbidire e basta.
Ci salvò uno dei comandanti: era uno che amava i libri. I libri ci salvarono. Disse subito a mio padre che lo avrebbe aiutato a mettere al sicuro i libri più rari, non poteva lasciarli in balia dei suoi soldati: ubriachi, stanchi, feriti. E dunque, furibondi. Il cortile, da tutti i lati, fu occupato da quello che era stato l’esercito invasore. C’erano morti abbandonati. Sangue ovunque. Armi, bombe a mano e quella lingua nemica. Un soldato afferrò la chitarra che una Rucellai si era portata dietro, lei si mise a urlare e dovettero calmarla e spiegarle che ci avrebbero fucilato tutti, se non la smetteva. Nel grande caos ci fecero tornare nel sotterraneo, ai nostri giacigli. Eravamo tutti prigionieri, ma loro erano in rotta e prima o poi se ne sarebbero andati. Una settimana, tanto durò la “convivenza”. Ogni minuto poteva essere l’ultimo, se avessero voluto. Un giorno uno di loro, credo ubriaco, mi prese in collo e uscì dal portone che dà su via Tornabuoni. Perché? Chissà, forse aveva una figlia anche lui. Ma era in corso una violenta sparatoria proprio sulla strada, verso piazza Antinori. La mamma guardava impietrita da dentro il palazzo, in silenzio perché pensava che se avesse urlato quello per dispetto sarebbe rimasto in mezzo alla battaglia. Quanto durò la passeggiata del soldato con me in collo? Non lo so, è stato ed è uno degli incubi ricorrenti e quando mi prende mi volto ancora a cercare sopra la spalla del tedesco il viso di mia madre. Disperata. Spesso qualcuno di loro cercava di essere gentile… Ricordo che corsi felice da mio padre, avevo avuto in regalo una splendida gomma da cancellare e la tenevo fieramente in mano per mostrarla. Mi disse gelido: “Vai subito a renderla”. Senza spiegazioni. Nemmeno una gomma! Crescevo, come tutti i bambini in guerra, rapidamente, più che in tempo di pace. Con la morte che era una cosa concreta, i morti abbandonati per le strade per giorni, senza che nessuno potesse seppellirli. I soldati morti nel grande cortile, fermi come statue abbattute, fin quando venivano caricati su qualche mezzo e portati via. Fantasmi orrendi e paurosi.
Dal 4 agosto in Oltrarno i tedeschi erano spariti del tutto, ma continuavano a seminare la morte i franchi tiratori che sparavano dai tetti, le mine nascoste fra le macerie, e l’artiglieria. Arrivarono finalmente quel giorno i soldati dell’VIII armata e incontrarono i nostri partigiani che li avevano preceduti a Porta Romana, in via Senese e a San Frediano. Enzo Enriques Agnoletti, che nel Comitato di Liberazione rappresentava il Partito d’Azione ha raccontato quale fu il lavoro di quei giorni in cui Firenze era divisa in due. “Dal giorno 4 in poi il Comitato di Liberazione doveva affrontare questi problemi: riorganizzare i collegamenti fra le squadre (partigiane), aiutare la città a vivere in condizioni disastrose specialmente dal punto di vista sanitario, prepararsi a condurre la lotta contro i tedeschi anche se questi avessero pensato di resistere a oltranza sulla linea dell’Arno. Gli alleati erano ancora a una decina di chilometri; soltanto il 5 mattina le prime pattuglie entrarono nei quartieri d’Oltrarno ostacolate dai franchi tiratori e dal fuoco delle mitragliatrici e delle batterie tedesche poste di qua d’Arno… Intanto alcune donne erano riuscite a riallacciare i collegamenti fondamentali correndo da una strada all’altra… Col passare dei giorni la popolazione era ridotta in condizioni disgraziate, spesso tragiche. Mancanza di cibo, poca acqua, sparatorie e saccheggio da parte dei tedeschi, cadaveri insepolti, parecchi casi di violenza. I patrioti rinchiusi nelle cantine e nelle soffitte pativano la fame.
Mentre i capi partigiani e le avanguardie alleate cercavano un’intesa su come, chi e quando avrebbe sferrato l’attacco definitivo attraversando l’Arno sulle macerie dei ponti, cadevano anche i primi morti dell’esercito alleato nella battaglia di Firenze. Ce lo ricorda una bellissima lapide messa dal Comune di Firenze all’angolo fra via Lupo e lungarno Serristori in memoria di un ventenne venuto da Croydon a morire per noi. Dice: “Qui, in una azione combinata tra una pattuglia britannica e una italiana il 4 agosto 1944 venne ucciso in battaglia il tenente della guardia scozzese Hugh M. Snell i superstiti della pattuglia italiana vollero questa lapide come espressione di gratitudine per il suo sacrificio in favore del loro Paese”. Non aveva fatto in tempo ad affacciarsi sul fiume che i tedeschi dalla riva destra lo avevano falcidiato. Ho cercato di sapere qualcosa di più su quel soldato. Faceva parte di una pattuglia di ricognizione, aveva studiato all’accademia militare di Sandhurst ed era stato arruolato con le guardie scozzesi. Veniva da una famiglia di militari. Un giorno mi sono fermata a leggere la lapide con i miei nipoti. Ho chiesto: “Pensate che oggi verrebbero ancora ad aiutarci a liberare il nostro Paese da una dittatura, da una occupazione straniera?”. La risposta non è stata immediata. Forse non volevamo ferirmi, ma poi tutti e tre dissero: “No, nonna, oggi no”. La mia speranza è tutta in quegli attimi di esitazione che hanno avuto: là dentro, in quella incertezza interiore, c’è lo spazio per la speranza nel futuro: perché non debba succedere mai più, tanto sangue versato.
( 4 – continua)

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