Requiem per la riforma costituzionale. Rinviata a molto dopo le elezioni europee, altro che 10 giugno, sempre che Renzi riesca a riportare in vita il patto con Berlusconi che la regge. Intanto la maggioranza che voleva correre si rifugia nel classico metodo del rinvio. Scadenza degli emendamenti spostata al 28 maggio. E nessuna decisione nella giunta per il regolamento sull’affaire Calderoli, cioè sulla forzatura impressa dalla presidente della prima commissione Finocchiaro nella seduta notturna del 6 maggio scorso. Quando, malgrado l’approvazione a sorpresa dell’ordine del giorno Calderoli che impegna la commissione a mantenere l’elezione diretta anche per il nuovo senato, ha successivamente fatto approvare come testo base la proposta del governo che va in direzione opposta, ed esclude l’elezione diretta. In giunta Forza Italia, malgrado quella notte in commissione avesse contestato la mossa, ha deciso di assistere ancora il governo, ma non fino al punto da bocciare il ricorso di Calderoli. Il precedente sarebbe stato assai ingombrante, così il presidente Grasso con il consenso dei berlusconiani ha preferito accantonare. Probabilmente augurandosi che passate le elezioni la questione esca dai riflettori. Com’è probabile se a quel punto il problema di Renzi, e di Berlusconi, sarà la legge elettorale. Per cambiarla, grazie a quel bicameralismo paritario che il governo vuole fragorosamente eliminare, ma nel quale dovrà rifugiarsi per la terza volta in tre mesi.
Non giova allo stato di salute della riforma renziana, alla quale il presidente del Consiglio ha legato la sua «carriera» politica, il turno di audizioni che si è svolto ieri in prima commissione. Nove giuristi hanno parlato sul disegno di legge costituzionale del governo e uno, Gustavo Zagrebelsky, ha mandato un testo scritto (prevedibilmente sfavorevole). In netta prevalenza, anche numerica, i critici. In sostegno del testo firmato Renzi-Boschi solo Stefano Ceccanti, Ida Nicotra e Roberto Zaccaria, che pure hanno sottolineato l’esigenza di alcune modifiche. Non ostile neanche l’amministrativista Giandomenico Falcon, ma ha sostanzialmente chiesto di riscrivere la parte dedicata al Titolo V. Contrari, da sponde politiche opposte, i professori Stelio Mangiameli e Francesco Cerrone, che ha parlato di «populismo» e «pulsioni autoritarie» dell’esecutivo. Mentre sono andati più in profondità gli interventi di Stefano Rodotà e Alessandro Pace, firmatari di quell’appello «Verso la svolta autoritaria» che ha fatto imbizzarrire Renzi, e di Luigi Ferrajoli.
Rodotà non ha girato attorno alla sua polemica con il presidente del Consiglio. «Gli innovatori del 2014 sono più indietro dei conservatori del 1985», ha detto, ricordando (e rivendicando) l’antica proposta per il monocameralismo. «Il vero conservatorismo — ha detto — è quello di chi propone una legge elettorale in continuità con la precedente, colpita dalla Consulta, utile solo agli interessi dei contraenti del patto», Renzi e Berlusconi. Nel testo del governo, ha chiarito, non c’è solo il bicameralismo in discussione, ma la forma di governo. E in senso autoritario, nel solco della linea di pensiero che scarica sulle istituzioni le incapacità della politica. Spazio anche per un avvertimento ex cathedra a Renzi, che aveva detto che l’ordine del giorno Calderoli «vale zero». «La democrazia, specie nel caso della revisione costituzionale, è anche procedura. Non si può qualificare come irrilevante un atto parlamentare che insiste nel procedimento previsto dall’articolo 138».
Altro «professorone», Alessandro Pace ha esordito sul filo dell’ironia — «spero di non irritare nessuno ma faccio il mestiere di costituzionalista» — poi ha sollevato ben tre obiezioni pregiudiziali al testo governativo. 1: il parlamento dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum non è legittimato a cambiare la Costituzione. 2: il disegno di legge non è omogeneo perché mette insieme forma parlamentare e titolo V, così da limitare la libertà di voto in caso di referendum confermativo. 3: non compete al governo l’iniziativa legislativa costituzionale. «Se questa proposta venisse accolta — ha detto — e diventasse legge anche l’Italicum, avremmo un sostanziale monocameralismo dominato da una coalizione non legittimata dalla maggioranza degli elettori e privo di contropoteri».
Monocameralismo — ha aggiunto Ferrajoli — che potrebbe in teoria essere un fattore di rafforzamento del parlamento. Ma alla condizione che l’unica camera venisse eletta con una legge «perfettamente proporzionale». Viceversa, ed è la situazione che propone l’esecutivo, la camera si avvia a essere «strumento di mera ratifica della volontà governativa». Sempre che questa riforma abbia un futuro.