Presidenzialismo no grazie

06 Mag 2014

Il nodo della forma di governo va sciolto all’inizio, e non alla fine del percorso. Non è serio ipotizzare un nuovo sistema bicamerale, nel buio dei poteri del governo, della sua legittimazione, dei compiti spettanti al Capo dello Stato. Come non è serio congegnare una legge elettorale, senza sapere se il presidente della Repubblica scaturirà da un’elezione diretta o da un’elezione di secondo grado.

RomaPalazzoQuirinaleSILVIO BERLUSCONI È INAFFIDABILE nei tempi ordinari, figuriamoci in campagna elettorale. Tuttavia la lettera (pubblicata domenica sul Corriere) nella quale rilancia il presidenzialismo, proponendolo come esito delle riforme, non è soltanto una sparata propagandistica. Ci tornerà Berlusconi anche dopo le Europee.
Del resto, ha posto il tema a Renzi sin dall’incontro del Nazareno. E il leader del Pd deve avergli risposto in privato come ha fatto domenica in pubblico: «Si approvi intanto la riforma del Senato e del Titolo V e dopo, solo dopo, si può anche ragionare di presidenzialismo».
Anche Berlusconi tratta la questione con un certo grado di ambiguità. Nella lettera ha posto quasi sullo stesso piano il «sindaco d’Italia», il «premierato», il «presidenzialismo» e il «semi-presidenzialismo», mentre in tutta evidenza alludono a modelli costituzionali assai diversi tra loro. Ma confusione e ambiguità sono poco sopportabili, se si vogliono fare davvero le riforme. Su un punto in particolare occorre far chiarezza. Il nodo della forma di governo va sciolto all’inizio, e non alla fine del percorso. Non è serio ipotizzare un nuovo sistema bicamerale, nel buio dei poteri del governo, della sua legittimazione, dei compiti spettanti al Capo dello Stato. Come non è serio congegnare una legge elettorale, senza sapere se il presidente della Repubblica scaturirà da un’elezione diretta o da un’elezione di secondo grado.
Bisogna essere sinceri fino in fondo: le riforme finora messe in cantiere sono coperte da un velo che ne offusca parzialmente gli obiettivi. Se si vuole accelerare, è il momento di abbandonare le ipocrisie. Più volte Matteo Renzi ha detto che intende rafforzare la figura del primo ministro nel governo e i poteri del governo in Parlamento. Il proposito di una democrazia decidente è più che legittimo. Non si tratta neppure di un proposito estraneo ai principi della Carta del ’48, tanto è vero che nella sotto-commissione della Costituente venne approvato il famoso ordine del giorno Perassi, che raccomandava l’adozione di «dispositivi costituzionali idonei a tutelare l’esigenza di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Ma per stabilizzare il governo non è affatto necessario il presidenzialismo. Anzi, è bene dirlo con nettezza mentre la riforma del Senato e della legge elettorale sono ancora in itinere: il rafforzamento del governo ha un senso se inserito all’interno di una razionalizzazione del sistema parlamentare. Chi pensa di introdurre il presidenzialismo sul finale del percorso, magari con un ricatto politico, va bloccato fin d’ora. Perché esporrebbe la nostra democrazia a una disarticolazione e a un serio pericolo. In astratto il presidenzialismo è una forma di governo democratica. Ma il rischio di finire in una Repubblica delle banane è innegabile se concepissimo un presidenzialismo sulle macerie dei partiti, privati di ogni finanziamento pubblico (come non avviene in nessuno dei grandi Paesi europei), delegittimati e ridotti nella maggior parte dei casi a proprietà dei rispettivi leader. Peraltro, da noi si sta stabilizzando il tripolarismo e nessuna persona di buon senso prevede nei prossimi anni l’azzeramento della destra, o della sinistra, o di Grillo. Allora cosa si fa? Si affida il governo a un «dittatore eletto», eliminando la figura del Capo dello Stato garante? L’idea di fondo che ispira l’Italicum è di attribuire il governo parlamentare al partito o al polo che arriva primo alle elezioni. Non è un’idea pacifica. Ma almeno corrisponde a un sentimento diffuso nel Paese e a una pratica che si è sviluppata nei Comuni e nelle Regioni. Ovviamente, il governo «monocolore» di uno dei tre poli in competizione richiede una definizione chiara e un rafforzamento anche dei poteri di controllo delle minoranze e dei meccanismi di garanzia che impediscano al governo di appropriarsi della Costituzione. È proprio il rafforzamento del governo e del primo ministro all’interno di un sistema parlamentare razionalizzato che esclude radicalmente la soluzione presidenziale. Non ci possono essere equivoci, né rinvii. Ed è bene colmare subito i vuoti presenti nella riforma del Senato. Nel testo attuale la soluzione proposta per l’elezione del Capo dello Stato è insostenibile (e non vorremmo che preparasse la sortita berlusconiana).
Se la Camera viene eletta con un sistema iper-maggioritario, non è possibile che la platea dei grandi elettori del Capo dello Stato sia composta dalla somma di 630 deputati e 148 senatori. Il premio di maggioranza della Camera diventerebbe impropriamente un’ipoteca sul presidente della Repubblica. I deputati devono essere minoranza tra i grandi elettori: solo così si confermerà il ruolo di garanzia del Capo dello Stato.
E le garanzie sono tanto più importanti, quanto più si voglia rafforzare il governo. Ad esempio, se si fissa in Costituzione una data certa per il voto sui disegni di legge governativi, non si può impedire a una minoranza qualificata di ricorrere in via preventiva alla Corte costituzionale. Le garanzie vanno dislocate in ogni punto del sistema. La maggiore forza al governo è compatibile con una maggiore forza del Parlamento. È invece il presidenzialismo che strappa il disegno complessivo. Di un presidente-garante abbiamo oggi bisogno più di ieri, perché non c’è il bipolarismo e la deriva populista e personalista non è frenata o attenuata da corpi sociali intermedi.

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