Riforme. Se chi critica il governo è perduto

08 Apr 2014

Vorrei invitare tutti (opinione pubblica, soggetti politici, responsabili istituzionali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota retorica dominante, dalla politica dello sberleffo, dalla fascinazione della frase ad effetto. Per guardare al merito delle cose. Impressiona, in effetti, vedere come la discussione pubblica sulle riforme costituzionali si svolga ormai prescindendo del tutto dai fatti e dal contenuto della riforma proposta.

governorenziVorrei invitare tutti (opinione pubblica, soggetti politici, responsabili istituzionali, noi stessi) a fare uno sforzo per uscire dalla vuota retorica dominante, dalla politica dello sberleffo, dalla fascinazione della frase ad effetto. Per guardare al merito delle cose. Impressiona, in effetti, vedere come la discussione pubblica sulle riforme costituzionali si svolga ormai prescindendo del tutto dai fatti e dal contenuto della riforma proposta. Alle critiche non si risponde nel merito, ma ci si limita ad adottare una strategia di delegittimazione delle persone (la polemica contro il «professoroni» ne rappresenta l’epitome). Partiamo allora dai fatti, per poi esprimere delle valutazioni.
Iniziamo dal metodo. Nel nostro ordinamento costituzionale al governo non spettano tutti i poteri, bensì solo alcune fondamentali, ma pur sempre definite, funzioni. Esso principalmente è titolare – assieme ad altri organi – dell’indirizzo politico che si realizza nel programma di governo. Tradizionalmente sfugge all’esecutivo la materia costituzionale ed è per questo che le iniziative per l’eventuale revisione della costituzione sono prese dal parlamento, che è l’organo a cui spetta il potere di revisione. La ragione sostanziale che porta a questa separazione di compiti (al governo l’ordinaria gestione del potere, al parlamento la straordinaria manutenzione del testo della costituzione) dovrebbe essere intuitiva e accettata da ogni persona che abbia consapevolezza dell’importanza del principio della divisione dei poteri: ad evitare il rischio che una maggioranza politica intervenga impropriamente sulle regole di tutti. È vero che abbiamo assistito – anche nel recente passato – ad iniziative governative per la modifica della costituzione, ovvero si possono richiamare esperienze di altri Stati. Non è dunque un «colpo di stato» (a proposito di toni eccessivi) quello che si è posto in essere con la presentazione da parte del governo di un disegno di legge di revisione del bicameralismo perfetto e del Titolo V. Ciò non toglie però che l’assunzione della responsabilità diretta della revisione da parte del governo Renzi evidenzia uno squilibrio a favore dell’esecutivo e a scapito del legislativo.
Ad evitare di aggravare lo scompenso si dovrebbe pensare di sottoporre alla più libera discussione il disegno del governo, soprattutto in sede parlamentare, che – si ripete – è l’organo titolare del potere di revisione. Invece, si assiste alla chiusura di ogni spazio di dibattito: si impone una tempistica (entro il 25 maggio la prima lettura del senato), si esclude ogni confronto con le diverse proposte presentate da gruppi di parlamentari (quella ben più meditata presentata da 22 senatori dello stesso partito di Renzi), si preannunciano improprie sanzioni politiche in caso di fallimento del progetto governativo (far fallire le ambizioni del leader di governo verrebbe sanzionato con il classico e un po’ inquietante «tutti a casa»). Comportamenti formalmente legali (tutto ciò che non è vietato e possibile), cionondimeno sostanzialmente privi di legittimità (ponendosi in contrasto con i principi di fondo del nostro ordinamento politico).
Per quanto riguarda il metodo, dunque, può dirsi che esso tende ad imporre una decisione, sottraendo al legittimo titolare del potere di revisione – ma anche al libero dibattito dell’opinione pubblica – ogni spazio di discussione. È possibile avanzare delle critiche sul metodo senza per questo essere messi all’indice e tacciati di ostacolare le riforme? La richiesta di discutere nel merito e nelle sedi appropriate le riforme costituzionali è una esigenza sentita sola da disprezzati «intellettuali militanti»? Il fatto – sempre richiamato – che sono trent’anni che si parla di riforme può rappresentare una giustificazione per non discutere più nulla proprio nel momento in cui si cerca di dare seguito a questo dibattito?
Passiamo ora al merito. Per quanto riguarda la riforma del senato ho già argomentato su questa rivista la mia opinione («La riforma del Senato. Prima della scelta sulle modalità di composizione vengono le funzioni»). Ora vorrei pormi solo la domanda che a me pare essere quella fondamentale per poter giudicare la proposta avanzata dal governo. Dopo l’approvazione della riforma avremmo rafforzato o indebolito il sistema parlamentare? Sarebbe infatti assai discutibile cambiare per sbilanciare ulteriormente gli equilibri tra i poteri, a favore del governo e a scapito del parlamento. Non è allora tanto un’astratta modellistica costituzionale che viene in gioco (ovvero la sua versione propagandistica: riduzione dei costi e odio alla casta), quanto l’effettivo ruolo che si vuole assegnare ai distinti poteri. Si tratta, dunque, di ridefinire gli equilibri incrinati della forma di governo parlamentare italiana. Qui scatta l’allarme: secondo alcuni la riduzione della seconda camera a organo privato di legittimazione diretta e di funzioni di garanzia, senza un corrispettivo aumento dei poteri dell’altro ramo del parlamento, nonché la concentrazione di ulteriori poteri nelle mani del governo (la «ghigliottina» per l’approvazione delle leggi), rende questa riforma costituzionale temibile. È un sospetto infondato? Discutiamone. E invece no, non si può fermare il treno delle riforme. Non c’è dubbio che alcuni costituzionalisti possono apprezzare l’impianto del disegno di legge governativo (ci sarebbe da stupirsi se così non fosse), ma forse si dovrebbe dare ascolto anche alle voci dissenzienti. La politica di delegittimazione delle critiche e delle persone non allineate non solo è una caduta di stile, ma anche un’altro argomento di preoccupazione di una possibile «svolta autoritaria». Una frase che ha fatto irritare molti e ha scatenato reazioni allarmate.
Anche in questo caso – al di là dei toni eccessivi da tutti utilizzati – andiamo alla sostanza. Il rilievo che i modelli democratici stiano subendo una torsione autoritaria non mi sembra molto originale. Sono decenni che si discute di una riduzione degli spazi di partecipazione e di progressiva concentrazione del potere. In Italia, poi, sono vent’anni almeno che si assiste ad un graduale slittamento verso forme sempre più autocratiche di gestione del potere. La vera questione è allora: la riforma costituzionale annunciata accentua o restringe la tendenza alla riduzione degli spazi di democrazia? Indebolire il parlamento, aumentare i poteri del governo, non stabilire misure di riequilibrio e di garanzia a fronte di una legge elettorale con cui si vuole forzare la rappresentanza per conseguire lo scopo di assegnare ad un solo competitore la maggioranza assoluta dei seggi nell’unica camera politica rimasta, mi sembra riveli la direzione di marcia. Non è ancora sufficiente per parlare di «svolta autoritaria»? In effetti, si potrebbe anche dire che si sta semplicemente proseguendo sulla stessa strada del passato. Scoprendo così, finalmente, quel è il segno della svolta annunciata.
Giunti a questo punto sarebbe veramente auspicabile una seria discussione sulle politiche costituzionali. Dovremmo anzitutto aver chiaro però che non si cambia la costituzione solo per ragioni d’immagine, bensì per invertire una rotta che ci ha condotto ad indebolire progressivamente il sistema parlamentare e ad un’eccessiva concentrazione ed autoreferenzialità dei poteri, non compensata da una mitologia della governabilità senza popolo. È proprio da quella parte della dottrina che oggi viene accusata di aver bloccato per trenta anni  il cambiamento costituzionale che sono state avanzate le proposte più radicali. Per dirne una: perché anziché limitarci a differenziare il bicameralismo non pensiamo ad adottare un sistema monocamerale eletto a suffragio universale con sistema proporzionale?
Qualcuno, lasciandosi prendere da un eccesso polemico, ha ritenuto di poter assimilare questa ipotesi all’attuale proposta di riforma. Forse vale la pena allora spiegare quel’è la differenza abissale: in un sistema democratico il monocameralismo pretende la rinuncia ad ogni distorsione della rappresentanza (un sistema elettorale proporzionale). Altro che «la sera delle elezioni si conosce chi governa per i successivi cinque anni», sarebbe il ritorno alla centralità dell’Assemblea dei rappresentanti. Un vero cambio di rotta. Chi è disposto a seguire questa via «rivoluzionaria»?
Se non si volesse essere così radicali e ci si volesse limitare a differenziare il bicameralismo, se inoltre non si volesse rinunciare alla malsana idea di adottare un sistema elettorale che assicura la governabilità sacrificando la rappresentanza (nella perversa forma ideata dall’Italicum), si dovrebbe quantomeno assicurare che la seconda camera possa bilanciare l’accentramento dei poteri. Costituendosi come senato di garanzia i cui membri non siano espressioni delle istituzioni, bensì rappresentanti scelti in base al principio di pura proporzionalità, con uno statuto che assicuri un forte peso politico di controllo alle minoranze.
Ma è difficile, di questi tempi, solo adombrare possibili scenari alternativi, bisognerebbe far comprendere ai soloni della riforma, che cambiare una costituzione non è solo un problema di velocità, ma anche di equilibrio.

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