Corruzione e lotte intestine, malattie di partiti sbrindellati

03 Apr 2014

Ci vuole il Papa per parlar chiaro ai politici sulla vergogna della corruzione? Non deve esser stato gradevole per quei 518 uomini e donne di governo e di opposizione che si erano accalcati nella Basilica di San Pietro per guadagnare i primi posti come all’Opera ascoltare le parole di papa Francesco.

senatoCi vuole il Papa per parlar chiaro ai politici sulla vergogna della corruzione? Non deve esser stato gradevole per quei 518 uomini e donne di governo e di opposizione che si erano accalcati nella Basilica di San Pietro per guadagnare i primi posti come all’Opera ascoltare le parole di papa Francesco. Dopo il suo sermone, infatti, se ne sono andati via come il cane Pluto di Topolino, le orecchie penzolanti all’ingiù. Non pensavano certamente di venir rampognati in quel modo, sentirsi dare dei peccatori diventati corrotti incalliti, sepolcri imbiancati, uomini che Dio non perdona, una classe dirigente che si è allontanata dal popolo, interessata soltanto alle proprie cose, al proprio partito e alle sue lotte intestine abbandonando il gregge. Quello di Gesù che è quello del popolo di sempre.
Pare che si faccia finta di non vedere, o che si voglia addirittura non sapere, quel che viola quotidianamente la legge in ogni angolo d’Italia, in tutti gli strati sociali. La questione morale, frutto proliferato a dismisura in questo ventennio berlusconiano, dopo il breve lavacro di Mani Pulite, è considerata qui da noi una bestemmia giustizialista. Solo che la corruzione è purtroppo una realtà ben presente e non sembra che i contravveleni siano all’ordine del giorno. Basta che le guardie, alle quali vengono negati anche la benzina per le macchine, oltre ai soldi per le inchieste, vadano a mettere il dito in un posto qualsiasi per scoprire scandali, tangenti di ogni genere, truffe allo Stato, evasioni fiscali, ammanchi di miliardi. Mazzette e veleni, tutto fa brodo.
L’Italia è in grave difficoltà non soltanto per la crisi economica e finanziaria ancora da sanare. La crisi è degli uomini chiusi nei propri problemi di sussistenza, di tutta la società, della politica malata, dei partiti sbrindellati, essenziali, invece, per la tenuta di un sistema democratico parlamentare.
Questi principi elementari vengono recepiti e discussi o si preferisce l’ottimismo di maniera, il professionismo della rassicurazione? La classe dirigente di governo sembra affidare crescita e riscossa al giovanilismo e alla velocità del fare, speriamo nutriti dal pensare. Il mondo salvato dai ragazzini?
Renzi è spuntato d’improvviso, come un misirizzi, dopo due anni di travagli politici: la caduta di Berlusconi, il governo Monti, le elezioni del 2013, il pasticcio venuto dopo, il Quirinale, i 120 traditori di se stessi e del Pd, il governo Letta al quale Renzi giurò fedeltà prima di andar lui al suo posto a Palazzo Chigi. Per alcuni è il salvatore della patria — «se non lui, chi?» — per altri è la controfigura del donizettiano dottor Dulcamara, il taumaturgo donator fallace dello «stupendo elisir che desta amore».
Non pareva dissennata l’idea di sostituire l’infame Porcellum e di andare subito alle elezioni per ritrovare quella legittimazione popolare che ancora oggi manca a un governo anch’esso provvisorio. E soltanto allora metter mano alle riforme istituzionali che hanno bisogno di un largo consenso frutto di una seria discussione, perché riguardano la vita delle future generazioni. Non è stato possibile perché la nuova legge elettorale, approvata ingloriosamente dopo tanto parlarsi addosso, riguarda solo la Camera e non il Senato, il punto dolente. Si cerca allora di risolvere il problema della drammatica disoccupazione, al 13 per cento, del disagio collettivo, delle piccole e medie fabbriche che chiudono i cancelli? No, la vera questione diventa il Senato. Da cancellare, dimezzare, privare dei poteri legislativi e di controllo. «O il Senato va a casa o il caos». Per risparmiare, viene anche detto.
Renzi agisce come se fosse protetto da un’entità metafisica. Senza alcuna parvenza di progetto globale di riforme procede per ultimatum, un aut aut dopo l’altro. «O così o me ne vado», minaccia un giorno sì e un giorno no.
Il Pd, o meglio il suo capo-segretario, decide, il Consiglio dei ministri approva il testo del disegno di legge costituzionale, adesso tocca al Senato che dovrà autoaffondarsi: 148 senatori, non più 315; non voterà più la fiducia al Governo; non voterà più neppure la Finanziaria; non sarà elettivo, ma nominato. (Certo, non è finita qui, l’iter costituzionale è una lunga marcia. Renzi ha poco da dettare condizioni, termini, modi). E chi saranno i prescelti per il laticlavio di serie B? I presidenti delle Giunte regionali, certi sindaci, con doppio incarico, cittadini meritevoli, a titolo gratuito, escluse le spese di viaggio e di soggiorno, pericolose, come si è visto, per il Tesoro.
Ci si è già dimenticati della corruzione dilagata nelle regioni, dei presidenti incriminati, dei consiglieri incarcerati, in Piemonte, in Lombardia, nel Lazio, in Abruzzo, in Calabria, in Campania, in Sicilia, altrove? Saranno loro i designati? Dovrà celebrare un’altra messa papa Francesco? Ma quel che forse è peggio è la percezione che si stia fomentando nel Paese un clima di intolleranza contro chi dissente, gli intellettuali critici e disturbanti, «i professoroni», come li ha definiti Renzi. E viene in mente Scelba, il ministro di polizia degli anni Cinquanta del secolo scorso, che bollava inviperito «il culturame».

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