Renzi e il dissenso

31 Mar 2014

Si possono definire i critici «gufi e rosiconi», caro Matteo, e intellettuali come Rodotà e Zagrebelsky «professoroni o presunti tali» (sì, anche invece di rispondere nel merito alle critiche). Ma se lo fai, caro Matteo, poi non lamentarti se parliamo di autoritarismo, se pensiamo che non è solo la comunicazione ma lo stile di leadership politica ad accomunarti alla «destra»…

renzicampanelloSi possono definire i critici «gufi e rosiconi», caro Matteo, e intellettuali come Rodotà e Zagrebelsky «professoroni o presunti tali» (sì, anche invece di rispondere nel merito alle critiche). Si può tirare in ballo il doppiopesismo della sinistra sfoderando l’arma derisoria per tutte le stagioni, i «girotondi». Si possono annunciare infinite promesse – ogni volta che apro il giornale ne trovo di nuove – e poi minimizzare se le date slittano e i conti non tornano (dicendo con fastidio, invariabilmente, «i soldi ci sono»). E si può anche dipingere un mondo in cui da una parte ci sei tu, l’antisistema, che vuole cambiare tutto e dall’altra «l’establishment, il sistema» – parola di Cazzullo, nell’intervista odierna – che per definizione invece resiste, si oppone, è «palude», un magma indefinibile di forze tutte conservatrici e – guarda caso – tutte dissidenti, come se in Italia ci fosse una opposizione unita, unica, solida, il cui unico collante sia non cambiare assolutamente nulla (non che non ci siano i conservatori, anzi: è che io dovunque mi giri sento al contrario proclami di voler cambiare tutto, proprio come quelli di Renzi). Ma se lo fai, caro Matteo, poi non lamentarti se parliamo di autoritarismo, se pensiamo che non è solo la comunicazione ma lo stile di leadership politica ad accomunarti alla «destra» (sì, anche la postideologia si può abbracciare in modo ideologico – e sarebbe da ricordarlo pure a Galli Della Loggia, che nell’editoriale di ieri sembrava dimenticarlo), quella (pessima) che abbiamo conosciuto in Italia: la lingua, bruttissima, è proprio la stessa; un misto di arroganza e denigrazione per chi non la pensa al tuo modo che francamente speravo si potesse evitare di riproporre in una leader che si vorrebbe tutto nuovo (io ancora non ho capito dove starebbe la novità), e soprattutto che dovrebbe condurre a «cambiare verso» proprio a partire dall’educazione, e dunque dalla cultura. Ce n’è stato un altro negli ultimi vent’anni, Matteo, che è arrivato al potere con quella di travolgere lo status quo, e di travolgerlo subito, ma solo ed esattamente nel modo in cui voleva lui. Anche lui faceva straw men di tutti quelli che si opponevano («comunisti!» – che dici, ci arriverai anche tu?). E anche lui diceva che prima che alle parti sociali e ai politici e ai giornalisti parlava ai cittadini. Bene, vorrei ricordarti che – nonostante un impero economico – non ha funzionato, e personalmente ringrazio il cielo. Ma non, caro Matteo, perché resisto al cambiamento, perché «gufo», «rosico» o mi piace la «palude» da cui tu vorresti fuggire a «piè veloce»: perché resisto al metodo con cui viene proposto. E il metodo, di cui il linguaggio trovo sia una parte essenziale, viene prima del contenuto. Più che di correre, lanciare ultimatum e snocciolare emergenze, c’è bisogno di recuperare una sana normalità nel modo in cui si argomenta e discute di politica e di temi pubblici in questo paese. Ecco, Matteo: tu da questo punto di vista mi sembri perpetuare l’«anomalia». Di conseguenza, io perpetuo il mio dissenso.

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