La democrazia dal basso di Adriano Olivetti

07 Mar 2014

Francesco Pallante

Il pensiero di Adriano Olivetti – le sue origini, il suo significato, la sua attualità – è stato al centro dell’incontro che si è tenuto lo scorso 4 marzo nella Sala grande del Circolo dei lettori di Torino, su iniziativa delle Edizioni di Comunità e del Circolo Libertà e Giustizia di Torino. Con Gustavo Zagrebelsky, Melina Decaro della Fondazione Adriano Olivetti e Lorenzo Sacconi, professore di etica economia e reseponsabilità sociale dell’impresa nell’Università di Trento.

OlivettiIl pensiero di Adriano Olivetti – le sue origini, il suo significato, la sua attualità – è stato al centro dell’incontro che si è tenuto lo scorso 4 marzo nella Sala grande del Circolo dei lettori di Torino, su iniziativa delle Edizioni di Comunità e del Circolo Libertà e Giustizia di Torino.
Nell’occasione della pubblicazione del libro, contenente due discorsi di Olivetti, Le fabbriche di bene (Edizioni di Comunità, 2014), un vasto pubblico ha assistito per quasi due ore all’intensa discussione, condotta da Melina Decaro della Fondazione Adriano Olivetti, tra Lorenzo Sacconi, Professore di etica economia e reseponsabilità sociale dell’impresa nell’Università di Trento, e Gustavo Zagrebelsky, Presidente onorario di Libertà e Giustizia.
Prendendo le mosse dalla crisi attuale, Sacconi ha messo in luce come l’idea di impresa dominante negli ultimi trent’anni – secondo la quale l’unico obiettivo che merita di essere perseguito è la massimizzazione, a qualsiasi costo, dell’interesse degli azionisti – sia oramai fallita. Lo strapotere della finanza sull’economia e le incredibili diseguaglianze sociali che ne sono derivate dimostrano l’illusorietà della tesi secondo cui il mercato produce ricchezza per tutti e deve quindi essere lasciato libero da vincoli di ogni genere. Gli investitori – come tutti gli essere umani – agiscono anche, ma certo non soltanto, sulla base della razionalità, sicché non c’è nessuna certezza che le loro azioni producano esiti positivi. C’è bisogno di una nuova idea di impresa e il pensiero di Olivetti può essere utilmente preso a riferimento, a partire dall’idea – centrale nella contemporanea nozione di impresa socialmente responsabile – che svolgere attività imprenditoriale significhi contrarre doveri nei confronti, oltre che degli azionisti, anche dei lavoratori, del territorio, della popolazione che lo abita, dell’ambiente naturale e culturale. A fianco all’irrinunciabile obiettivo dell’efficienza economica occorre porsi quello della ricerca del punto di equilibrio tra le contrastanti esigenze di tutti tali “soggetti” (per esempio pensando a un modello di proprietà diffusa). Con la consapevolezza che tutto ciò non deve tradursi in un vincolo insuperabile per quei singoli membri della comunità che non dovessero condividere l’idea comune di bene.
Spostando il discorso dal piano economico a quello giuridico, Zagrebelsky ha evidenziato come la Costituzione contenga eco del pensiero olivettiano, anche se, più che per influenza diretta, soprattutto per via del fiorire, negli anni della Costituente, di un filone di pensiero che riponeva poca fiducia nello Stato nazionale – considerato responsabile dei due conflitti mondiali – e cercava forme di aggregazione sociale alternative, di impronta federalistica, sia verso l’alto (Manifesto di Ventotene), sia verso il basso (Carta di Chivasso, progetti costituzionali di Duccio Galimberti e Silvio Trentin). L’idea di un ordine sociale proveniente, in prima istanza dal basso, è caratteristica della stessa pratica di Olivetti, che ha agito realizzando la “fabbrica di bene” ancor prima di teorizzarla. La storia italiana ha, poi, preso una strada diversa, riservando un ruolo centrale proprio a quei partiti che Olivetti avrebbe voluto eliminare, per timore che attraverso di essi potesse ricostruirsi la temuta sovranità statale. Sconfitto nella pratica, il pensiero di Olivetti sopravvive, tuttavia, sul piano ideale, specie per la sua capacità di tenere assieme cose diverse (democrazia e comunità, gruppo e singoli). Olivetti pensava all’impresa come a un’entità non esclusivamente economica: nella sua fabbrica, a fianco agli operai, c’erano sociologi, letterati, urbanisti. C’era il lavoro, e c’erano biblioteche, cinema, servizi sociali. C’era l’idea che il lavoro dovesse essere solo una parte della vita e che la comunità lavorativa dovesse occuparsi anche della restante parte. A coronamento del suo ideale, la stessa comunità avrebbe dovuto diventare proprietaria della fabbrica, grazie alla creazione di una fondazione rivolta al perseguimento del bene comune. Difficile dire quanto oggi sarebbe realizzabile delle idee dell’imprenditore eporediese. Di certo, però, la storia insegna che quando crollano i grandi imperi, le alternative nascono sempre dal basso. Proprio come immaginava Olivetti.

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