La riforma a futura memoria

21 Feb 2014

Lo stop di Alfano alla riforma elettorale con la singolare pretesa di una sua approvazione «a futura memoria», è rivelatore del bivio davanti al quale si trova Matteo Renzi. Non esiste ovviamente nessuna democrazia al mondo che abbia una legge elettorale «sospesa». Sarebbe l’ennesima anomalia italiana, anche grottesca sul fronte ordinamentale. Né funziona il tentativo di giustificarla con la necessità di attendere la promessa abolizione del Senato elettivo e il superamento del bicameralismo perfetto.

imagesLo stop di Alfano alla riforma elettorale con la singolare pretesa di una sua approvazione «a futura memoria», è rivelatore del bivio davanti al quale si trova Matteo Renzi.
Non a caso sul punto il nuovo centro destra si salda con quella parte del Pd che ha frontalmente osteggiato la spinta innovatrice del sindaco di Firenze e poi ne ha lanciato la prematura chiamata a Palazzo Chigi con il trasparente obiettivo di incartarlo. Non potendo negare la priorità assoluta di una nuova disciplina elettorale, si pretende che la sua stessa approvazione contenga una norma che ne vieti l’applicazione (sic!) rinviandola a ben più complesse e incerte riforme. Come dire l’inganno elevato a forza di legge. Non esiste ovviamente nessuna democrazia al mondo che abbia una legge elettorale «sospesa». Sarebbe l’ennesima anomalia italiana, anche grottesca sul fronte ordinamentale. Né funziona il tentativo di giustificarla con la necessità di attendere la promessa abolizione del Senato elettivo e il superamento del bicameralismo perfetto.
In primo luogo per avere una minima credibilità questa condizione dovrebbe essere accompagnata da una rigido vincolo temporale. Un impegno solenne, esso sì sottoscritto davanti al notaio, di approvare la riforma del Senato nei tempi minimi previsti dalla Costituzione, massimo sei mesi, e con esso la riforma elettorale. Ma siccome è proprio questo ciò che non si vuole, si ha l’improntitudine di proporre la riforma elettorale a futura memoria. In realtà non vi è alcuna incompatibilità tra lo schema dell’Italicum e l’attuale assetto costituzionale. Già nel testo varato risulta superata l’assurda attribuzione del premio di maggioranza al Senato su base regionale, mentre i voti nazionali in valori assoluti hanno da sempre rivelato orientamenti univoci degli elettori ben più coerenti di un legislatore barocco. Basterebbe poi agevolare il tutto con il ballottaggio su unica scheda per scongiurare ulteriormente esiti differenti tra le due camere. Il vero è che l’espediente rilanciato ieri dal partito di Alfano mette in luce una volta ancora la contraddizione dell’azzardo in cui Renzi si è lanciato. Ha usato verso i parlamentari la leva ammaliatrice di garantire loro lunga sopravvivenza, niente meno che il 2018. Allo stesso tempo però ha ribadito l’impegno a realizzare subito le riforme istituzionali, precondizione necessaria per cambiare verso al Paese. Ma è la prima promessa ad allettare per diverse ragioni i partiti che dovrebbero sostenerlo, mentre la seconda, ove mai realizzata, imporrebbe giocoforza il ritorno alle urne.
In quest’ingorgo di spinte contraddittorie, il conto in realtà lo presentano le regole di base di una democrazia parlamentare che con ogni evidenza non può tardare ancora a trarre le conseguenze della più mortificante bacchettata che potesse meritarsi. Ci dimentichiamo infatti che la legge fondamentale di una democrazia rappresentativa è stata censurata brutalmente dalla Corte costituzionale non per singole anomalie del sistema di voto, ma per il suo carattere profondamente antidemocratico. Per quante acrobazie possano farsi la delegittimazione dell’attuale Parlamento non può essere più radicale e profonda. Nessuna assemblea elettiva può reggere molto oltre la sanzione della incostituzionalità del sistema con il quale si è formata. Non potrebbe un consiglio comunale figuriamoci i principali organi del sistema democratico.
È per queste ragioni che la strada obbligata è fare la riforma elettorale e al più, se possibile, in tempi rapidi quella del Senato e poi necessariamente ritornare alle urne per consentire la nascita di una maggioranza parlamentare eletta su base democratica e ragionevolmente coesa per compiere le scelte chiare che servono sul versante economico, a partire dal taglio selettivo della spesa che è la più politica delle «politiche». Forse Renzi oggi non può dirlo ma c’è da augurarsi che a questo stia puntando. Passa del resto da qui il bivio che può renderlo davvero la guida della svolta che tante speranze ha suscitato o ben più mestamente il gestore presentabile di un capolinea sempre più paludoso.

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