A chi giovano le larghe intese

28 Gen 2014

Nell’ultimo anno non mancano i coups de théâtre e sfilano scene d’una partita a nove teste (alcune collettive). Cominciamo da Re Lanterna: s’era risuscitato in campagna elettorale, come i vecchi cavalli al suono della tromba; la rimonta è strabiliante; ma sopravvenuta una condanna irrevocabile, decade dal Senato dove godeva comoda immunità. Incombono rischi penali ancora più gravi e non sono infortuni accidentali: sconta i modi in cui era asceso violando ogni norma; imputet sibi, doveva accadere. Non ha imparato niente: impoliticamente furioso, vuol estorcere salvacondotti nemmeno pensabili ed erompe il fondo della sua storia, l’innaturale dismisura; i greci la chiamavano hýbris, castigata dagli dèi. Famiglia e sodali d’uno stretto circolo formano la seconda testa: nello sfondo l’immane patrimonio; gli suggeriscono cautela; qualcuno dissentiva dall’avventura politica, intuendone i rischi. Agita due teste il partito. Nel corrente lessico ornitologico chiamiamoli colombe e falchi. In comune hanno l’abito ubbidiente: fervono gare a chi lo serve meglio; nessuno osa contraddire; salmodiano laudi in ginocchio. Villa San Martino è Versailles brianzola: lever du Roi, coucher du Roi, ecc., ma là recitava Molière; qui le serate soddisfano gusti meno fini. All’ideologia provvedono ogni mattina gli addetti coniando frasi da ripetere in monotoni rosari: ad esempio, che esistano «i comunisti»; toghe rosse infieriscano da tanti anni ma lui esca immacolato; e ancora più innocente sia nel caso tramato dall’ultimo complotto. Parole violente, guignol, favole grossolane, nemmeno l’ombra d’un raziocinio. Fondando l’impero televisivo aveva imposto i canoni: il pubblico ha sì e no 11 anni e quanto più regredisce, tanto meglio; potete fargli bere qualunque fandonia. Il partito, insomma, è compagnia sui generis, poco intellettuale ma energicamente motivata: corrono lauti compensi (paga lo Stato); avvengono ascese miracolose, dal niente; basta piacere al padrone. Tale contesto significa guerra intestina permanente: non esistendo preclusioni o titoli vecchio stile, chiunque può volare; «perché lui o lei e non io?». Avvampa l’odio tra concorrenti. Dallo schieramento falchi-colombe traspare qualche variabile opportunistica: gli uni ritengono d’avere meno chance se Sua Maestà s’ingentilisse (lo vogliono rabbioso e arrembante); le altre, vedendolo vecchio, sperano d’allogarsi in una destra leggermente incivilita. Abbiamo contato quattro teste nel reame d’Arcore.
La quinta sta sul Colle. Re Giorgio predicava «larghe intese» ossia un sistema consortile dove il Pd sarebbe junior partner, visto come votano gl’italiani anno Domini 2008: salva l’Olonese al punto infimo della parabola (novembre 2011) ibernando le Camere; rieletto su impulso del redivivo, attua quel disegno installando Letta nipote; e qui sopravviene l’evento traumatico. I consorti presupponevano Berlusco invulnerabilis, invece soccombe nell’ultimo giudizio, com’era giuridicamente impossibile che non avvenisse, e scatena l’inferno. Testimonia il ministro quaglia-colomba delle riforme costituzionali (27 novembre 2013), caro al monarca senior (è diarchia l’Italia): «escludo ogni complotto» ossia intese preventive sulla grazia; e che nutrisse riserve mentali (non graziarlo); da «quanto ha capito, è vero il contrario»; l’incauto s’è giocato il beneficio rompendo i ponti. Erano cinque i ministri Pdl e tanti restano, disubbidienti (l’ordine era «dimettersi»). Lo sostenevano a corpo morto sulla questione della decadenza: «l’Italia non uscirà indenne» se viene escluso dal Senato, ammoniva la predetta colomba sfoderando le unghie; ma stavolta non possono seguirlo, perché questo governo salva il paese; e fondano un gruppo autonomo, Nuovo Centro Destra. Spira antico trasfor-mismo. La salus rei publicae c’entra poco.
Spuntano tre teste nell’area Pd. Identifichiamole. Enrico Letta reincarna l’anima democristiana: perfetto, essendo anche nipote dell’omonimo Gianni, mellifluo negoziatore d’Arcore; e salta fuori una seconda parentela emblematica. Due deputati coniugi: lei berlusconiana, ministra delle politiche agricole, imperiosa in affari locali; lui presiede la commissione Bilancio. La consegna è tenere in piedi un governo verbosamente immobile. Lo scuote il segretario investito dalle primarie, risoluto, dinamico, nuovo nell’antropologia Pd, ma gli scava il terreno sotto i piedi l’ottava testa collettiva: una nomenclatura insonne, cresciuta nel vecchio Pci, partito-chiesa con dogmi, riti, clero; sarà duello cruento. Gli oligarchi sono figure da Politburo: tentassero cento volte le urne, sarebbero altrettante sconfitte; poco male, avevano in mano il partito. L’egemone Silvius Magnus era partner naturale: meglio ancora se cede la ribalta a doppioni scialbi; inutile dire quanto temano l’opinione critica e aborrano le Cinque Stelle. Infine gli elettori, nona testa: premendo, talvolta determinano scelte virtuose dei parlamentari, nati dalla nomenclatura; con dispetto i consorti NCD notavano una metamorfosi giacobina.
Siamo al punto cruciale. A chi giova l’attuale pastiche?
Il Pd ha tutto da perdere: è avvilente e costa tanti voti futuri la tresca con chi ieri reggeva la coda al pirata, umiliandosi in servizi abietti; da soli costoro rischiano la scomparsa, infatti maledicono ogni sbarramento elettorale. Quando lui li chiami, ubbidiranno. Nel frattempo fungono da lobby. È pensabile che tale corte dei miracoli regoli i conflitti d’interesse o colpisca il mercato corruttori-corrotti o abbatta rendite parassitarie o restauri i termini d’una prescrizione dei reati, il cui taglio manda a vuoto i giudizi penali? Se mai spaccia pseudogarantismo, dalla custodia cautelare alle intercettazioni (farfugliando in proposito, un precoce capogruppo Pd, pupillo d’oligarchi, riscuoteva applausi forzaitalioti). Insomma, quanto meno durano le «strette intese », tanto meglio, ma qui viene in gioco Neapolitanus Rex: se le era covate, né pensa d’abdicare; così riferiva Matteo Renzi uscendo dal Quirinale, martedì 14 gennaio.

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