Restiamo le sentinelle contro l’omertà di Stato

15 Gen 2014

Barbara Spinelli

I magistrati di Palermo non sono minacciati solo dai messaggi violenti di Totò Riina dal carcere, ma dalla diffidenza di chi parla con disprezzo dei “professionisti dell’antimafia”. Siamo al fianco di chi lotta per sciogliere i nodi della storia d’Italia. Leggi la testimonianza di Rita Barbera, coordinatrice di LeG Palermo.

dimatteoVorrei provare a riflettere su quel che sta accadendo nella lotta antimafia alla luce della crisi che viviamo, perché ogni crisi è un rivelatore. Nel nostro caso, fa vedere come si costruiscono e si modificano i soggetti del quartetto insostenibile composto da mafia, antimafia, cui aggiungerei i co-protagonisti che sono lo Stato, e l’antistato. Cosa ci rivela la crisi? E visto che come titolo del nostro incontro è stata scelta la domanda rivolta alla sentinella nel deserto, nel profeta Isaia: a che punto della notte sono i quattro soggetti? Non ho risposte chiare (è ancora notte infatti); quindi propongo una meditazione su alcuni punti che mi paiono cruciali. Che sono i nodi – come direbbe Solzenicyn – della nostra storia presente e anche passata.
La crisi e la scomparsa della questione mafia.
Primo nodo. La questione mafia viene sostituita dalla questione antimafia, ed è quest’ultima a creare problemi, a essere invisa non solo a Cosa Nostra o alla ‘ndrangheta o alla Sacra Corona ma a una porzione non irrilevante dell’establishment. Il rimedio al male, in altre parole, diventa parte del male, perde legittimità. Abbiamo già conosciuto questo capovolgimento nei primi anni 90, e anche allora esso coincise con una grande crisi: la fine della Guerra fredda. L’interesse primario di chi diffida dell’antimafia è, come allora, quello di preservare una certa immagine dello Stato, scosso dalla crisi e dunque desideroso di apparire omogeneo, non esplorabile perché ogni esplorazione vien vista come destabilizzazione. Siamo in guerra (la crisi è una guerra, economica e politica) e siccome in guerra le verità son scomode vale il motto: “Right or wrong, my State”. Nel torto o nella ragione difendo questo Stato (il motto dice questo Paese), quali che siano le sue corruzioni e i suoi inconfessati sottosuoli, presenti e passati.
È un’autodifesa che si irrigidisce, nel momento in cui si comincia a far luce sull’esistenza di questi sottosuoli, che più volte hanno tentato di sovvertire o aggirare lo Stato dando vita, appunto al quartetto insostenibile. Questa verità non s’ha da dire. Non s’ha da dire che lo Stato è stato ricattato da forze eversive interne o terroriste o criminali, con le quali si è patteggiato e forse si continua a farlo. Non s’ha da dire che in Italia un politico pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici, incandidabile, può tranquillamente presentarsi alle elezioni… e infatti nessuno lo dice, questa è l’Italia dell’illegalità e della truffa: siamo fatti così, colpevoli la natura o la psicologia. Di qui l’offensiva contro i magistrati di Palermo e contro il processo su Stato-mafia. Il loro isolamento avviene in due modi: o screditandoli professionalmente o tacendo sul loro operato, fino a ignorare le condanne a morte emesse da Riina o altri. Condanne nominative, cui si risponde con una solidarietà generica e con eufemismi che edulcorano i fatti (meglio dire minaccia a Di Matteo che condanna : il pericolo s’annebbia).
I messaggi del boss: un avvertimento allo Stato.
Il secondo nodo è Riina stesso, che il 14 novembre manda messaggi dal carcere di Opera in cui si trova. Mi è difficile credere che una persona come lui non sospetti di essere intercettato, mentre parla con il boss Alberto Lorusso. Vorrei provare quindi a tradurre in chiaro l’avvertimento che lancia ai magistrati certamente (anche se per esperienza egli sa che più annuncia stragi, più essi s’incaponiranno nella ricerca della verità), ma soprattutto al suo vero interlocutore che è lo Stato. Ed ecco cosa gli dice, sempre secondo la mia ricostruzione: “Attenzione, caro Stato, qui ti stanno attaccando e svelando per come sei: niente affatto compatto e omogeneo ma in parte inabissato, in parte coinvolto in trattative con noi che tu lo sai, ci sono state. Stanno attaccando non un’organizzazione malavitosa ma un sistema criminale, che comprende Cosa Nostra, ma che ha inglobato a più riprese massoneria, servizi deviati, destre eversive, e quell’antistato su cui si vuol fare silenzio. È a te, Stato, che si sta intentando un processo – anche se i magistrati pretendono di rappresentare un’idea superiore e migliore di Stato: cosa che non ti puoi permettere oggi come non potevi durante il caso Moro e ancor meno negli anni 90, perché Kohl in Germania lo disse espressamente: l’Italia se non abbatte la mafia diventa un rischio per l’Unione allargata a Est. Lo stesso Kohl che in due vertici europei, nel maggio e giugno 1990, chiese che la mafia italiana venisse messa all’ordine del giorno (il presidente del Consiglio Andreotti e il ministro degli Esteri De Michelis insorsero contro questa parola. Loro preferivano “criminalità organizzata”: “mafia” rimanda a qualcosa di più vasto, non circoscritto ai “picciotti”). Naturalmente questi retropensieri li immagino, ma non credo siano del tutto inventati. Come mi pare plausibile un altro messaggio sottinteso: “Neanch’io, Riina, voglio questo processo allo Stato, perché alla fine rischio di rimanere col cerino in mano: gabbato, di fronte a voi che mi avete usato e che coi vostri silenzi e le vostre rimozioni mi chiepatto che propongo. Non sto addossandomele proprio in questo momento, occultando la trattativa e raccontando come tutto da solo ho fatto fare la fine del tonno a Falcone, ho fatto volare in aria Chinnici?”.
Stabilità e larghe intese.
Terzo nodo: la stabilità come dogma e la Costituzione come intralcio. Se la crisi è una guerra, non si tollerano alternative al presente rapporto di forze. Cioè: tutt’attorno alle larghe intese è baratro. Di qui l’attacco alla Costituzione del ’48, alla Repubblica che deve farsi presidenziale. Sappiamo che questo era l’obiettivo della P2, del “Piano di rinascita democratica”. Oggi, più che mai, la crisi sembra esigere la sua attuazione: un po’ come in Francia, ma dete di addossarmi tutte le colpe”. Di qui l’attacco al processo sulla trattativa, una sorta di chiamata di correo: “Quei magistrati di Palermo portano addirittura Napolitano”, dice Riina, “e questo tirare in ballo il Quirinale, anche solo per ascoltarne la testimonianza, non mi piace per niente perché a questo punto io appaio come comprimario di un gioco più grande, che la mafia non controlla veramente”. E qui parte il pizzino: “State bene attenti dunque e serbate memoria di cosa sono stato capace di fare: ho fatto fuori Chinnici, poi Falcone e Borsellino con le loro scorte. Tutto il pool di Palermo insomma. Posso rifarlo con i loro successori. E perché lo rifarei? Perché Di Matteo, e tanti magistrati come lui, sono convinti che lo Stato dura ma l’antistato può perire, proprio come Falcone quando disse, il 30 agosto ’91 a Rai3: ‘Certamente c’è speranza. La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine’. Quest’idea non deve passare, perché noi siamo il frutto del ventre vostro, non possiamo morire. E magari per salvare il sistema criminale me le addosso davvero, le colpe: è l’ennesimo nascostamente, il capo dello Stato già presiede il Consiglio dei ministri, e l’esecutivo si fa potere accentratore, insofferente di contrappesi suscettibili di scalfirne il predominio, la supposta efficienza. Tutti dicono che lo Stato ha perso sovranità in Europa? Tanto più deve fingere sovranità ferree. Il che vuol dire: una stabilità che si fa dogma (“stabilità dei cimiteri”, la chiama il Wall Street Journal), e un potere politico che definisca l’iter della lotta alla criminalità come più gli conviene. È all’ombra di tale stabilità che i governi fanno corpo col volere dei mercati. Rivelatore da questo punto di vista il rapporto presentato il 28 maggio scorso da JP Morgan: le costituzioni, nei paesi più marcati dalla resistenza antifascista, sono un intralcio per le oligarchie che gestiscono la crisi, non un punto di forza: troppi diritti individuali e collettivi, troppe garanzie sociali, troppa check and balance.
Se leggete quel rapporto, avrete un’impressione, netta: chi parla non è solo JP Morgan, ma JP Morgan recepisce e rispecchia i desiderata di buona parte della classe dirigente, e nel caso italiano, riecheggia il Piano di Gelli. L’orizzonte simbolico non è un 25 aprile – la liberazione dalle mafie – ma l’8 settembre del generale Badoglio . Quel che si vuole è una resa incondizionata (non più all’esercito di Eisenhower ma ai potentati economico-finanziari), senza rompere però con l’alleato di ieri, che nel ’43 era Hitler e oggi è il sistema criminale con tutti i suoi rami. L’Italia allo sbando non era un danno collaterale della strategia di Badoglio e del re. Era l’obiettivo dell’8 settembre.
La resistenza: ricreare un clima “costituente”.
Il quarto nodo è la resistenza a questi doppi giochi. Sappiamo che lo stesso giorno in cui Badoglio e il re fuggivano da Roma, consegnandola alle truppe tedesche, i resistenti crearono il Comitato di Liberazione nazionale e promisero un’Assemblea costituente appena cessate le ostilità. Ecco, io credo che siamo qui per dire che questo vogliamo, difendendo i magistrati: un clima “costituente”.
Il che vuol dire: la verità sui patti stretti tra mafia, P2, servizi deviati, antiStato. Un’Italia che resiste, dove sovrano è il popolo con la sua Carta. E non solo è sovrano: può resistere, se minacciato da occulte reti criminali (in Germania è un diritto riconosciuto: lo dice l’articolo 20 della sua Costituzione).
“Noi giudici, da soli, con ce la faremo mai”.
Il quinto nodo è l’offensiva contro la cultura dell’antimafia. Anche qui gli anni 90 si ripetono, solo che a coniare l’epiteto “professionisti della legalità” non è Sciascia, che nell’87 attaccò i “professionisti dell’antimafia”, ma persone di grado ben minore che lo mimano, pur sapendo che Sciascia scrisse prima di Capaci e di Via D’Amelio, e cambiò idea dopo aver parlato con Borsellino. L’offensiva è contro quel che fa la scuola per educare a una cultura della legalità, e contro riunioni come questa di Palermo.
Vorrei citare Galli della Loggia, sul Corriere: l’antimafia “si sostanzia in nient’altro che in convegni, tavole rotonde, oceani di chiacchiere di Autorità varie (…), in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori”. Nando dalla Chiesa gli ha risposto bene, ricordando le parole di Borsellino sull’importanza di un’opinione pubblica che sostenga l’antimafia giudiziaria. Anche Rocco Chinnici disse (e lo seguirono poi Caselli, Ingroia): “Parlare ai giovani, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi, fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”.
Le inquietanti somiglianze con la Grecia dei militari.
Sesto e ultimo nodo: la crisi e il caso Grecia. È paese cerniera, nella crisi: in questi anni è stato trattato come cavia e memento, per i paesi in difficoltà. Atene ha una storia diversa dalla nostra, la resistenza comunista fu estromessa dall’arco costituzionale, e la guerra lì continuò fino al ’49. Doveva essere uno Stato anticomunista modello, una piattaforma militare dell’Occidente nella Guerra fredda, e lo diventò non in maniera subdola come da noi, ma palese. La dittatura dei colonnelli nacque da un patto fra Stati uniti e élite militari. Le storie sono diverse dunque, ma certe somiglianze fanno impressione.
Il rapporto dei greci con lo Stato è turbato in profondità. Tanto più ora, che i governi di Atene si sottomettono alle troike europee senza mai discuterne con i cittadini e senza affrontare il nodo decisivo della corruzione: per i greci, une replica umiliante. Così in Italia: il rapporto dei cittadini con lo Stato è un groviglio, troppe sono state le offese che i veri servitori dello Stato hanno subìto da parte dello Stato.
Se esiste un anti-Stato, e se i poteri politici non lo ammettono e denunciano lo strapotere delle procure, come risvegliare nel cittadino uno spirito pubblico? Altro punto in comune: quello che Tsipras, capo dell’opposizione greca, chiama “l’alleanza fra cleptocrazia statale ed élite europee che hanno piegato la Grecia”. La storia italiana è piena di patti simili. Abbiamo già visto come esista una complicità, fra le analisi della JP Morgan e quelle di chi – sulle orme della P2 – continua a mal digerire la Costituzione del ’48. Questi ultimi sono gli eredi di Badoglio: l’equivalente dei colonnelli greci.
Un ringraziamento ai pm che lavorano per la verità.
Le mie parole conclusive vogliono essere un grande grazie, a Nino Di Matteo e ai tanti che lavorano a suo fianco. Alle condanne nominative, la nostra risposta è nominativa: siamo con Di Matteo, e con Teresa Principato, Domenico Gozzo, Mirella Agliastro, i magistrati di Trapani. Siamo le loro sentinelle. Li presidiamo. Cosa fanno infatti i magistrati? Guardano nel groviglio per capire come s’è formato: con la complicità di chi, di quali forze esterne alla malavita. Cercano di dire l’indicibile, perché davvero non possiamo, non vogliamo continuare a usare quest’aggettivo: indicibile. Lo ha adoperato Loris D’Ambrosio, nella lettera a Napolitano del 18 giugno 2012, chiedendosi se non fosse stato, negli anni ‘90, “un ingenuo e inutile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Siamo stanchi di parole che occultano i reati. Chi vuole che le cose restino indicibili per forza è attratto dal silenzio, parla per allusioni (“Lei sa l’indicibile che sospetto”, scrive tra le righe D’Ambrosio, facendo capire che al Quirinale si sanno cose che non vanno dette). Per forza sceglie il mutismo, che non è segreto di Stato, ma mutismo omertoso. Penso sia l’ora di congedarsi anche dalla parola Italia dei misteri: la storia mostra che dire l’indicibile è possibile. Che gli oceani di chiacchiere vengono da chi mal sopporta riunioni come questa. E che se qualcuno sa l’indicibile, non può metterlo in un cassetto aspettando che la bufera passi e dire, come Pilato: “Che cosa sarà mai, la verità?”.

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