“Esempi”, non “vittime” Dirselo con un brindisi

07 Gen 2014

Un buon anno con panettone e pandoro. Tra familiari che si vogliono bene e si scambiano baci sulle guance. Alcuni familiari di persone uccise dalla finanza sporca, dalla mafia, dai narcotrafficanti. Familiari non “tra loro”. Ma di altri, di persone che non ci sono più.

Giorgio AmbrosoliUn buon anno con panettone e pandoro. Tra familiari che si vogliono bene e si scambiano baci sulle guance. D’accordo, messa così non è una notizia. E allora diamola in un altro modo. Un seminterrato in un cattolico ostello per la gioventù alla periferia di Milano. Alcuni familiari di persone uccise dalla finanza sporca, dalla mafia, dai narcotrafficanti.
Familiari non “tra loro”. Ma di altri, di persone che non ci sono più. Riuniti qui da una mano invisibile. Qualcuno, due giorni prima, ha avuto l’idea che si mettessero insieme e che si scambiassero gli auguri.
Sono abituati a brindare a un anno migliore? Lo facciano insieme, stavolta. Si parlino, si raccontino, servirà a incominciare l’anno con più energia. O con l’anima più leggera. Funziona. Il cielo milanese è da malinconia spinta, un favoloso grigio esistenziale. Ma nel seminterrato la vita prende tinte forti. Tra lacrime e allegria. Tiene banco una signora con una lunga sciarpa ciclamino. Lo volete sapere? Io sono orgogliosa di essere la figlia del primo magistrato ucciso dalla mafia. Sì, orgogliosa. È Mariella Scaglione, figlia di Pietro, ucciso a Palermo
nel 1971. Si era inimicato Luciano Liggio, allora ai vertici di Cosa Nostra. Oggi Mariella è in pensione a Milano, ha qui i due figli e fa la nonna. E narra di un’altra sua ragione di orgoglio, quando insegnava alle superiori a Palermo e dovette difendere il fratellino di Vincenzo Li Muli, uno dei poliziotti di scorta fatti a pezzi con Paolo Borsellino. Il ragazzo veniva emarginato dai suoi compagni: “Talé, il figlio dello sbirro”. Tanto che stava smettendo di andare a scuola.
Un mattino Mariella li prese di petto e disse che dovevano avere per lui lo stesso rispetto che avevano per lei, perché tutti e due erano familiari di vittime di mafia. Vinse, e gli occhi si illuminano al solo ricordarlo.
Vittime? Perché vittime? A me questa parola non piace. Ci dev’essere una ragione se Francesca Ambrosoli, sempre così timida e taciturna, prende ora la parola. È un termine brutto, spiega con la voce che le si spezza;
evoca una colpa, una situazione di inferiorità, mentre per me loro sono degli esempi, degli eroi. Per me papà è stato un dono. Si scusa per doversene andare presto, ha tre figli adolescenti che la aspettano a casa.
CERTO, Giorgio Ambrosoli è un eroe, commenta un familiare accanto a me. Però la targa intitolata a lui sul palazzo dove abitava, in via Morozzo della Rocca, l’hanno rimossa quattro anni fa. Dava fastidio, intristiva
il condominio, l’amministratore non mi ha nemmeno ricevuto.
Altro che esempio, altro che orgoglio… Ecco perché occorre farsi forza. E perché non sono retorici gli auguri che si intrecciano in questo interno di periferia.
L’orgoglio lo tira fuori anche Marisa Fiorani. Sua figlia, finita nella droga e desiderosa di uscire da quel mondo, venne uccisa dai trafficanti della Sacra Corona Unita e sepolta in un bosco, in Puglia. La storia di Marisa
mette i brividi. Di lei sentii parlare un giorno in treno con ammirazione da una signora sconosciuta che l’aveva ascoltata in una scuola di Busto Arsizio la sera prima. Qui rivendica l’orgoglio di essere la madre di Marcella, e di dirlo ovunque le capiti. Per troppo tempo l’hanno fatta vergognare di esserlo. Anche lei ha il suo aneddoto. Al mercato, con a spalla una borsa di Libera, allora qualcuno la chiamò: Signora Libera!. La voce veniva da un tavolino dove raccoglievano firme. Lei si voltò: sapete che cos’è Libera?, chiese. Sì, è quella cosa delle vittime, rispose uno. Ecco, io sono la mamma di una vittima, replicò. Marcella, ripete, e il nome le attraversa il viso come un lampo.
C’è anche un po’ la storia della lotta alla mafia in questi metri quadri. Fatta di servitori dello Stato, come Giuseppe Bommarito, l’appuntato che cadde nel 1983 a Palermo con il giovane capitano Mario D’Aleo; c’è qui
Francesca, la sorella, psichiatra. E fatta di sindacalisti coraggiosi, come Epifanio Li Puma, ucciso a Petralia Soprana nel ‘48. Il suo nome echeggia nel comizio di un immaginario Pio La Torre nel film Placido Rizzotto. E sempre qui c’è la nipote Grazia, maestra elementare a Gorgonzola, impegnata quest’anno a educare alla legalità i bimbi di prima. Ha portato il panettone.
Ma forse è Lorenzo, un quarantenne spilungone con la barba, a spiegare meglio il senso di questo incontro singolare. Per anni e anni suo padre, Piero Sanua, non fu considerato vittima di mafia. Faceva il sindacalista nel
commercio. Venne ucciso nel 1994 a Milano, forse dai clan che giravano intorno all’Ortomercato. Su un furgone, mentre il figlio gli era accanto. Poi fu dimenticato. È in questi incontri, spiega Lorenzo, che ritrovo il
senso di quel che è accaduto. Ricordo mio nonno ai funerali che gettò un pugno di terra sulla bara di mio padre mentre lo interravano e gli disse “Vedi Piero, uomini come te ce ne sono pochi”.
Io ora so chi sono, ma queste storie bisognerebbe farle conoscere. Certo non bisogna lasciarle in un interno della periferia milanese. In fondo questo incontro di persone che raccontano a loro modo la storia d’Italia
è un augurio che suona per tutti. Buon 2014.

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