Ora anche il premier Letta ha certificato che si torna sulla via maestra per le riforme costituzionali. È una buona notizia, anche se non è espressione di un autonomo scatto di saggezza ma la presa d’atto del venir meno di quella larga maggioranza che avrebbe messo al riparo il processo riformatore dall’eventualità di un referendum che avrebbe potuto cancellare il soggetto-motore improprio concepito per accelerare le riforme: il cosiddetto Comitato dei quaranta. Dentro il gruppo parlamentare PD ingaggiai una battaglia quasi solitaria contro la violazione della procedura ordinaria di revisione costituzionale contemplata dall’art. 138, contro la inopinata estensione dell’oggetto della riforma, contro l’indebita interferenza del governo in una materia di schietta competenza parlamentare.
Ancora una volta si era riaffacciato il mito fuorviante della grande riforma: quattro o cinque titoli, quasi tutta intera la seconda parte della Carta. Sono stato tra i pochissimi deputati del PD a non votare la legge costituzionale istitutiva del suddetto Comitato. Sia chiaro: non sostenevo e non sostengo l’intangibilità della Costituzione, né contesto che adeguamenti puntuali e mirati di essa (appunto revisioni) fossero utili e persino necessari, ma pensavo e penso che si dovesse seguire la procedura ordinaria e concentrarsi sulle poche materie per davvero bisognose di riforma e sulle quali è maturo un largo consenso.
In concreto: il bicameralismo, con la riduzione dei parlamentari, e l’aggiustamento del titolo quinto relativo ai rapporti tra Stato ed enti territoriali. Ora, dopo l’abbandono della maggioranza da parte di FI, esattamente lì siamo tornati. Se si fosse seguito il sentiero ordinario ci saremmo risparmiati tempo e tensioni. Saremmo già avanti nell’iter parlamentare e avremmo evitato l’ostilità di quel mondo politico, civico, culturale a noi vicino – compresa una parte cospicua e qualificata della comunità dei costituzionalisti – da sempre e apprezzabilmente sensibile alla difesa dell’ispirazione e dell’impianto costituzionale. Diciamo la verità, fuor di ipocrisia: quel percorso, autorevolmente sollecitato dall’alto e inscritto nella stessa ragione sociale del governo Letta, era un tributo pagato all’esecutivo delle larghe intese e rispondeva al malcelato proposito di allungare l’orizzonte temporale di esso. È la riprova che non è buona norma mettere mano a impegnative riforme costituzionali all’insegna del tatticismo e dentro uno stato di eccezione. Ma tant’è. Ex malo bonum.
Non mi piace fare la parte del pierino, cioè di quello che “io avevo avvertito…”. Naturalmente non potevo prevedere esattamente gli sviluppi politici recenti e dunque la rottura della maggioranza di governo. Ma – questo sì – non ci voleva un genio per immaginare che questa non sarebbe stata una legislatura costituente. Con un parlamento abitato da tre forze pressoché equivalenti e tuttavia tra loro profondamente divise anche e soprattutto sulla visione dei capisaldi di una democrazia costituzionale. Domando: come si poteva pensare che avremmo potuto operare una sostanziale riscrittura della seconda parte della Carta – lo chiedo al mio PD – con chi, come FI, mette in discussione elementari principi di legalità e propugna una Repubblica presidenziale ovvero con chi, alludo a 5 stelle, rifiuta in radice la democrazia rappresentativa inseguendo il mito della democrazia diretta.
Era facile previsione un tale epilogo in questo quadro parlamentare e forse, più al fondo, possiamo di nuovo apprezzare le ragioni di vecchi e saggi costituenti – penso a Giuseppe Dossetti – che ci ammonivano su tre punti: 1) si deve distinguere tra potere costituito e potere costituente, il quale ultimo si esaurì con l’Assemblea costituente del 1946-47 e dunque non può essere attribuito all’attuale parlamento, titolato semmai a un opera di revisione ex art. 38, specie dopo la sentenza della Consulta che lo depotenzia quantomeno politicamente; 2) il nostro non è tempo propizio per una impresa in senso proprio costituente: difettano in radice le condizioni e la temperie etico-culturale, prima ancora che la legittimazione giuridico-politica; 3) è decisamente improprio applicare la coppia conservatori-innovatori alla materia costituzionale, se non in senso descrittivo: in tema di sostanziale espansione dei diritti e della democrazia la Costituzione sta in larga misura ancora davanti a noi.
Mi pare che non si possa dire meglio! l’analisi di quanto abbiamo visto svolgersi sotto i nostri occhi negli ultimi mesi è lucida e – speriamo – definitiva. la malaugurata riforma a tutto campo della Costituzione è stata il fulcro del progetto, per ora sventato, di un governo condiviso con una destra che in tante occasioni ha mostrato la sua faccia eversiva. ma è stata anche in un certo senso un alibi, una pretesa di legittimazione da parte di un governo che non aveva le capacità e le competenze, né il coraggio, di affrontare le difficoltà concrete del paese.
In questo Paese non è la prima volta che per modificare la Costituzione a proprio uso e consumo si mettono in campo i “prestigiatori” . Ora tutto sembra filare per il meglio . Ma gli italiani continueranno la loro vigilanza e consci dei propri doveri ,mai si lasceranno scippare dei diritti Costituzionali conquistati con la lotta , sacrifici e sangue.
E’ vero: tiriamo tutti un sospiro di sollievo, ma non bisogna abbassare la guardia (si pensi all’intervista di ieri su “Repubblica” a Lupi, che ritorna a parlare di elezione diretta a vario titolo). Noi abbiamo fatto la nostra parte, ma, come si poteva prevedere/auspicare, le castagne dal fuoco le hanno tolte le stesse contingenze della politica che le avevano messe. Ora speriamo davvero di mettere la Costituzione al sicuro da questi giochetti.
Ma come si fa a non vedere l’enormità del problema ingovernabilità che ci portiamo dietro da troppo, immemore tempo?
Vi sembra normale che dal dopo guerra il ritmo dei governi italiani sia di uno all’anno mentre nel resto del mondo (con regole stabili, le stesse che sdegnosamente vengono respinte in queste sedi come fonte di autoritarismo/dittatura) eleggono uno e un solo governo a legislatura?
Non so proprio di cosa ci sia da gioire, francamente…
Nel resto del mondo più vicino a noi (in Europa occidentale, solo in Francia, mi pare) non ci sono gli enormi conflitti di interesse, il livello di corruzione e l’allergia alle regole che abbiamo in Italia. Perché non guardare piuttosto al modello tedesco, a noi più consono?
Solo in Francia, specifico, c’è un sistema semi-presidenziale. Ma è un paese molto diverso da noi. Dobbiamo mantenere la centralità del Parlamento e introdurre tutt’al più correttivi, come la sfiducia costruttiva.
Ad essere culturalmente più simile a noi è la Francia, altro che la Germania.
Ma comunque: andrebbe benissimo copiare pure la Cost. tedesca se vi pare, perché essa non si limita a prevedere la sfiducia costruttiva (regola di per sé inutile, le crisi di governo sono solitamente extraparlamentari ed infatti anche in Germania si è applicata solo due volte) ma prevede anche che il Cancelliere possa porre la fiducia su singoli provvedimenti e possa chiedere le elezioni anticipate nel caso il voto non sia favorevole.
La stabilità è data da questa regola, tant’è che i paesi in cui vige solo la sfiducia costr. (es. Slovenia) hanno pure loro problemi di ingovernabilità e di trasformismo imperante.
Copiamo pure la Germania, insomma, ma copiamola bene, oppure copiamo la Francia, ha regole simili ed è più democratica (col ballottaggio si va al potere solo col 50% +1 dei voti)
La Germania è più simile a noi, nel bene e nel male, come storia. Un’unità nazionale raggiunta secoli dopo gli altri grandi Stati europei, l’esperienza tragica della dittatura ecc. Ma il problema non sono le regole istituzionali, quanto piuttosto il livello etico della nostra classe politica e della nostra società più in generale. Quale riforma può ricostruire il senso del bene comune? E’ la prima vera, riforma di cui abbiamo bisogno e la più difficile da realizzare.