Quello che è possibile e giusto fare per il dramma delle carceri

09 Dic 2013

E forse si potrebbe provare ad inventare delle case di lavoro, per esempio sui terreni confiscati alla mafia, dove istituire forme di reclusione, per così dire, all’aria aperta, sulla scorta delle colonie agricole di vetusta memoria cui indirizzare i soggetti non violenti, facendo scendere dalle nebbie l’effettività del precetto rieducativo, che al di là delle verbosità abituali si attua solo riabituando le persone al lavoro e ai suoi ritmi…

carcereLe proposte ricorrenti di amnistia e di indulto, per far fronte alla incivile situazione delle carceri, sicuramente inaccettabile qualunque sia la concezione della pena, che non deve comunque essere un ricettacolo di esseri umani ammucchiati in modo indecente e tale da cancellare ogni dignità della persona, sono spesso una fuga dalle responsabilità; una fuga da parte dei governi che questa situazione ben conoscono da decenni, e mai, al di là delle periodiche lamentazioni, si sono posti il problema di una gestione responsabile dello stato di privazione della libertà;  misura purtroppo ineliminabile in uno stato di diritto, che ha il dovere di reprimere le violenze ai danni delle vittime come in ogni paese accade.
Fuga dalle responsabilità, perché aprire le celle, palliativo momentaneo,  non risolve, ma aggrava in tempi brevi il problema. Poche riflessioni: quale prospettiva si apre a coloro che vengono beneficiati dalla cosiddetta clemenza sovrana? Troveranno impieghi lavorativi che consentano loro di procurarsi onestamente le risorse per una vita ordinata? O andranno ad accrescere il numero ingente dei senza lavoro, con una prospettiva peggiore rispetto ai tanti in attesa di occupazione, perché segnati dai loro procedenti? Quale strumento potranno inventare per procurarsi i mezzi di sussistenza?   Non credo sia esser profeti di sventura prevedere che essi torneranno negli ambienti criminali che li hanno segnati, e che li riporteranno in tempi più o meno lunghi in carcere, dopo avere offeso ulteriormente quella porzione ancora vasta di società civile che nelle difficoltà cerca di lavorare senza delinquere.  Dunque, se non di soluzione ipocrita, è certamente una soluzione in sé irragionevole e negativa per coloro stessi che ne dovrebbero beneficiare, che di fatto vengono indotti a rinnovare la loro vocazione delinquenziale, questa volta senza una loro diretta colpevolezza morale.
In realtà, questi provvedimenti presentano un danno collaterale assai grave. Essi distruggono la fiducia, e la credibilità, da parte dei cittadini onesti, nello Stato e nelle sue istituzioni. Anzi, i governi che li sponsorizzano, i capi di Stato che firmano questi provvedimenti, agli occhi del pubblico perdono l’immagine di essere difensori della legalità e della moralità pubblica, e diventano invece fautori di disordine ed illegalità; in qualche modo, alleati della delinquenza. Questo danno morale che investe le istituzioni, rischia così di rappresentare una molla devastante per uno stato democratico, in quanto insegna e proclama pubblicamente che frodare le leggi conviene, perché l’illegalità non si paga. E distrugge la sensazione di appartenere a uno Stato democratico, avvertito come complice dei disonesti e nemico degli onesti.  Che dovrebbe essere ciò che governanti assennati dovrebbero massimamente temere.
Dunque, si dirà, le carceri debbono essere, così come sono, un male necessario? Certamente, si può dire, non è affatto così. Vi sono provvedimenti che un governo assennato potrebbe adottare subito. Mi riferisco a quella vastissima fascia di reati, che sono tali soprattutto per scelta ideologica. Una larga parte della popolazione carceraria, è ristretta per reati di droga. In questo campo, la logica dei governi che si sono succeduti in questo paese è stata sempre e comunque nel senso di un aggravamento delle pene; senza far troppa differenza tra spacciatore professionale, spacciatore per necessità, e consumatore puro. Né molto ha inciso l’introduzione dell’attenuante del fatto lieve.
Questa scelta è stata devastante. Non solo non ha impedito che la diffusione dell’uso delle droghe si ampliasse sempre più,  ma ha criminalizzato indiscriminatamente oltre allo spacciatore professionale, anche il consumatore occasionale, equiparando pene sanzioni e storie personali lontanissime, in un intento  repressivo che da un lato non ha impedito il dilagare del commercio, troppo redditizio per non attrarre organizzazioni strutturate, e segnando con marchio infamante, indipendentemente dalla sanzione penale,  chi era solo vittima di una debolezza, o di una moda, o di un costume;  che colpisce spesso ragazzi controllati per caso in strada.  E senza minimamente contenere il fenomeno, soprattutto in fasce sociali privilegiate,  come le analisti tecniche della cocaina nei fiumi cittadini, curate da alcuni nostri validi ricercatori dimostrano.
Dunque, sarebbe facile, per un governo che vuole in tempi brevi affrontare il problema carceri, cancellare l’equiparazione tra droghe pesanti e leggere; punendo solo il commercio professionale. Basterebbe un decreto legge di poche righe, per alleggerire sensibilmente, con un gesto di umanità duplice, anche la situazione carceraria.
Ovviamente, in altri paesi si sta affrontando il problema in modo assai più radicale secondo quanto propose, nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario dell’anno 1998, il procuratore generale Ferdinando Zucconi Gali Fonseca.
Questo naturalmente è solo un aspetto del problema carcere, anche se il più urgente. L’altro è la necessità di adeguamento delle strutture, posto che il numero  dei detenuti  nel nostro paese non è, comparativamente, superiore a quello degli altri paesi occidentali. Il che richiede la riapertura di istituti inopinatamente dismessi, e forse, con una punta di creatività e di originalità, recuperare qualche vecchio istituto troppo sbrigativamente cancellato, come le carceri mandamentali, ottima soluzione  per i piccoli reati e le detenzioni brevi, una specie di prigione casalinga,  nella misura in cui ancora situazioni di questo tipo permangono…
E forse si potrebbe provare ad inventare delle case di lavoro, per esempio sui terreni confiscati alla mafia, dove istituire forme di reclusione, per così dire, all’aria aperta, sulla scorta delle colonie agricole di vetusta memoria cui indirizzare i soggetti non violenti, facendo scendere dalle nebbie l’effettività del precetto rieducativo, che al di là delle verbosità abituali si attua solo riabituando le persone al lavoro e ai suoi ritmi…

L’autore è ex-procuratore capo a Fireze e socio LeG

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