La lezione della nostra storia. Meditazione sul potere invisibile e l’impudenza visibile

14 Nov 2013

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Il gioco grande del potere di Sandra Bonsanti (Chiarelettere 2013, € 12,90) è un libro necessario. E’ una lettura che consiglierei a tutti i giovani che non vogliano ripetere l’errore della mia generazione: di nascere, per così dire, alla cittadinanza con gli occhi rivolti soltanto altrove, perduti in distratte lontananze, ignorando completamente il lascito della generazione precedente, quella dei nostri padri e madri.

IL GIOCO GRANDE SIENA. 14.11.2013A Giacomo Costa, con gratitudine

Il gioco grande del potere di Sandra Bonsanti (Chiarelettere 2013, € 12,90) è un libro necessario. E’ una lettura che consiglierei a tutti i giovani che non vogliano ripetere l’errore della mia generazione: di nascere, per così dire, alla cittadinanza con gli occhi rivolti soltanto altrove, perduti in distratte lontananze, ignorando completamente il lascito della generazione precedente, quella dei nostri padri e madri. Noi fummo iniziati alla “politica” ignorando nel modo più radicale proprio quelle ragioni che avevano spinto i nostri padri a segnare alla politica un limite preciso e invalicabile di compatibilità etica, una norma fondamentale di tutela della pari dignità e dei diritti di ognuno, e anche di elementare istituzione dei doveri di cittadinanza. Fu stabilito chiaramente anche cosa ognuno doveva a tutti gli altri, come impegno sancito dal patto fondativo di questo Stato. Ma noi fummo iniziati alla politica senza esserlo a quella conoscenza morale che aveva espresso, dopo le catastrofi della prima metà del Novecento, il neocostituzionalismo e la sua idea di fondo: una politica che non abbia fuori di sé il suo limite e il suo fondamento si distrugge come governo degli stati secondo ragione e giustizia, e diventa soltanto arte di acquistare e mantenere il potere. La politica senza una vigente norma pre-politica (che stabilisca i confini del lecito perseguimento degli interessi particolari) abolisce presto la distinzione fra uno Stato e un’associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ma noi entrammo, in qualche modo, nella storia del nostro Paese – senza conoscere affatto questa storia, almeno la più recente. E oggi lo vediamo: i confini fra lo Stato e le miriadi di associazioni a delinquere in cui affondano le radici del potere, visibile e invisibile – sono ovunque semicancellati, porosi, o del tutto assenti.

1. Un insegnamento contro l’idea che “tutto si decide altrove”.

Come sarebbe stata la storia di questo Paese se anche la nostra generazione fosse stata capace di prendere maggiormente sul serio i presupposti costitutivi di una vita civile, l’impegno tacito verso gli altri e noi stessi assunto con la cittadinanza, il patto, nato dalla cognizione del dolore, che i nostri padri e le nostre madri ci affidavano? Forse molto diversa da quella che è stata, e che le pagine di Sandra Bonsanti ci ripropongono, così come una professionista dell’informazione l’ha vissuta ed esplorata, quotidianamente, in prima persona, via via alimentandone la passione civile. Ma oggi, accanto all’indifferenza, all’ignoranza o all’oblio, in chi sogna un’Italia diversa prevale ancora, purtroppo, il pensiero deresponsabilizzante secondo cui “tutto si decide altrove”, nei meccanismi a molla di un processo senza soggetto chiamato “capitalismo”, nel “pensiero unico” chiamato neoliberismo (che appena guardi più da vicino è tutt’altro che unico e ha vigorosi avversari sia teorici che pratici nel mondo). E invece non tutto si decide altrove. Le decisioni più distruttive per i territori sono state prese nel cuore di quei territori. E il neoliberismo c’entra poco con gli appalti truccati, le dinastie palazzinare e mafiose, le cordate dei capitani coraggiosi, l’Alitalia puntellata con le Poste, i fiumi dell’evasione fiscale, la cloaca senza fine della corruzione e della malversazione, la catena di abusi e soprusi, deroghe e condoni…
In questo senso è salutare il racconto che Sandra Bonsanti ci propone di un’altra storia. La storia dell’intreccio fra lo Stato e un Antistato annidato in cuore allo Stato stesso, dalla rifondazione dell’Italia repubblicana fino ad oggi. Scandita dalla ri-emersione periodica, decennio dopo decennio del famoso Piano di rinascita nazionale di Gelli e della P2, e cioè la riforma costituzionale che il governo presente, se non cade, si avvia a realizzare ormai allo scoperto, ma non legittimamente: attraverso la deroga all’Art. 138 della Costituzione (quello che prescrive i tempi e i modi di ogni possibile modifica costituzionale), nel perfetto silenzio dei partiti, della stampa e degli intellettuali: con la quasi sola eccezione della piccola associazione Libertà e giustizia, che con le parole ferme e desolate di Sandra Bonsanti denuncia oggi – solitaria, inascoltata – in una lettera ai senatori questa eccezione di legalità che ha finito per passare come la cosa più “normale” del mondo. (Vedila sul sito www.libertaegiustizia.it).

2. L’eredità della P2 alla luce del sole

Questa è in effetti la cosa che colpisce oggi, il fenomeno che questo libro ci aiuterà a spiegare. Che appunto passi inosservata come normalità un’eccezione alla regola delle regole, e per di più da parte di un governo nato da un patto non voluto dalla maggioranza degli elettori, e, peggio ancora, approvata da una maggioranza parlamentare di nominati (a prescindere da qualunque merito o effettiva rappresentanza) in base a una legge elettorale iniqua, da tutti i politici denunciata ma da tutti loro sfruttata (contro gli elettori). Che cioè non ci sia più nemmeno bisogno di occultamenti e segretezza per cambiare – senza chiedere il permesso – le regole del gioco in pieno gioco. Che l’erosione del normativo a tutti i livelli della vita sociale, civile e istituzionale, l’appiattimento del diritto sul fatto e sulla forza, la miscela di scetticismo e conformismo divenuta cinismo che da sempre connota l’esercizio del mestiere politico nel nostro paese siano arrivati al punto che il “criptogoverno” (categoria usata da Norberto Bobbio) non sia nemmeno più necessario: questi anni ci hanno insegnato che la visibilità senza vergogna rende del tutto obsoleta la paccottiglia dell’occulto. Che bisogno c’è di nascondere. Basta essere ignorati. Basta che il quarto potere sia corrivo: e sarà silenziata la voce dei migliori costituzionalisti, anche sostenuta da quella della piazze più civili (vedi la manifestazione in difesa della Costituzione a Roma il 12 ottobre scorso) o il grido muto di quasi mezzo milione di italiani (vedi l’appello contro la deroga all’articolo 138, lanciato dal “Fatto Quotidiano” e quasi totalmente ignorato dal resto della stampa e dei media).
Questo è l’epilogo, oggi. E l’inizio dov’è? “Il gioco grande del potere” è un’espressione che risale a Giovanni Falcone. E lega insieme l’alfa e l’omega di questa storia.

3. L’alfa e l’omega di questa storia

La prima immagine, l’alfa della storia di cui l’oggi è l’omega, è quella di un giovane di venticinque anni, che compare in una foto scattata a Palazzo Giustiniani nel 1947, fra Enrico De Nicola, che sta firmando la Costituzione Italiana, e Alcide De Gasperi che lo osserva. Il giovane tiene in mano una cartella, con dentro il testo della Costituzione. Si chiama Francesco Cosentino, ed è figlio di Ubaldo Cosentino, segretario generale della Camera dei Deputati. Francesco, che ha fatto carriera in famiglia, erediterà quella carica nel 1962. Ma da alcuni anni prima è amico e sodale di Licio Gelli, l’ex fascista e repubblichino, riparato in Uruguay e tornato nel dopoguerra in Italia a fondare la P2 – fin dall’inizio in stretto rapporto 1) con la mafia siciliana 2) con le bande criminali di cui si serve per una serie di rapimenti che vanno a finanziare le casse dell’associazione, 3) con Michele Sindona e Roberto Calvi, che ne gestisce l’eredità; 4) con tutto l’establishment dei partiti della Prima Repubblica, in particolare il PSI di Craxi e la DC di Fanfani e Forlani. Attraverso l’eredità fascista, Gelli è implicato con i servizi segreti impegnati a partire dal ’69 (Piazza Fontana) nella strategia della tensione (stragismo di stato). Attraverso la vecchia mafia siciliana e la nuova americana lo è in tutte le vicende che anche dopo la chiusura della P2 hanno visto grandi pezzi di amministrazione regionale e statale implicati in scambi segreti e trattative di ogni tipo con mafie. Ma soprattutto, attraverso la perfetta continuità con cui i Piduisti vengono sdoganati ben oltre gli anni Novanta in molti luoghi cruciali e della politica e del sottogoverno (basterebbe pensare a Berlusconi e a Cicchitto), questo tipo di consorterie determina ancora quotidianamente l’agenda politica in due fondamentali settori: e cioè lo scambio corruttivo con interessi economici particolari (diverso dall’attività lobbistica perché gli scambi di denaro o voti in cambio di favori non avvengono alla luce del sole, e possono violare le leggi o “interpretarle” a loro piacere) e la persistenza esattamente dei punti fondamentali del cosiddetto Piano di rinascita di Gelli-Cosentino: riforma in senso presidenziale e riforma della giustizia.
Peccata enim quis intelligit? – si chiedeva Agostino, e non c’è domanda che sorga più spontanea, quasi a ogni pagina, nel cuore del lettore, di fronte al non senso – al nulla, infine di cui il male è fatto, alla sua banalità proterva o gaglioffa o sfuggente: come le facce dei protagonisti di quel gioco immobile, sempre uguale, che muove fiumane di denaro per rovesciare o consolidare posizioni di potere che servono ad attrarre altro denaro che serve altro e nuovo potere… finché collera e memoria sfumano nel disgusto, e si scende alla fermata del presente, nel tempo degli scilipotidi. Tutto è cambiato, e niente lo è, in fondo.
Sì, perché la prima cosa che noti è quanto piccoli, in termini di ambizioni politiche, siano i fini perseguiti con questo “grande” gioco. Si può pensare ad esempio che il fascismo di cui si nutre Gelli e che risuona in tanta parte dei mai ripuliti apparati dei servizi più o meno segreti, veicoli nello stragismo ancora una parvenza di senso geopolitico: l’anticomunismo, le nere fattezze di un’idea di Stato autoritario, per quanto truce e violenta; o che la mano totalmente libera lasciata dal Vaticano ai suoi banchieri, che invischia la Cattedra di Pietro nei più sanguinosi patti col demonio, abbia come fine che non avrebbe dovuto giustificare i mezzi il finanziamento di Solidarnoš e di nuovi equilibri geopolitici nell’Europa dell’Est. Ma non si può evitare di notare quanto privo di senso e di idea, fino al puro nichilismo, sia il circolo vizioso di potere-denaro-potere su cui insiste Gustavo Zagrebelsy nella sua Postfazione, il circolo che prima e “seconda” Repubblica ingaggiano fra politica ed economia, a pro di mere anche quando pantagrueliche spartizioni di posti di comando, stipendi, carriere, belle case, viaggi premio, servizi da “utilizzatore finale” e promozioni di figli e fidanzate (l’epilogo oggi: l’ovvietà di una ministra della giustizia cui non si contesta il diritto di favorire in tutti i modi leciti e illeciti una famiglia di detenuti per crimini economici, solo perché sono amici suoi, danno lavoro e liquidazioni di sogno a suo figlio, etc.). Vizietti che negli ultimi vent’anni ci sono semplicemente costati la devastazione irreversibile di un paese che ha perduto tutto: sì, anche l’industria e il lavoro. Ma in primo luogo la sua bellezza e la sua salute – sepolta la prima sotto il cemento che ha divorato coste, montagne e colline, devastata la seconda a colpi di violazione impunita delle leggi. Dall’Olivetti che fu la casa del buon lavoro e divenne la casa della morte per amianto1, alle varie Ilve disseminate in riva ai mari (la belga Solvay continua imperterrita a da cinquant’anni a fare di quelle che erano un tempo le spiagge dei macchiaioli le sue discariche, amorevolmente assistita dalle amministrazioni locali), ai porticcioli che hanno sconvolto la linea di costa a furia di erosione provocata e cemento, ai rifiuti tossici del mondo sversate sotto i pascoli campani, alle trivelle del petrolio nelle falde acquifere della Lucania, o a due passi dalle isole siciliane nel Mediterraneo.

4.La tesi di Sandra Bonsanti, la radice ideale di Libertà e giustizia e l’”amara lezione” di Norberto Bobbio

La tesi di Sandra Bonsanti è tutto fuorché una tesi complottista, di occultismo politico o spy stories e scandalismo giornalistico. Perché il libro vuole illustrare invece dalla prima all’ultima pagina la verità di una tesi espressa da Norberto Bobbio in un momento cruciale di questa nostra storia, l’inizio di quegli anni Ottanta in cui Enrico Berlinguer fotografò la realtà dei partiti nella prima Repubblica con la famosa intervista sulla questione morale (ci torneremo). Ecco la tesi di Bobbio: la permanenza, o addirittura la crescita, di un forte nucleo di potere invisibile è una lesione mortale della democrazia perché ne distrugge l’essenza propria: la democrazia infatti è il “regime del potere visibile”2.
Molti sono i sensi di questa tesi. Non c’è solo l’opposizione del governo della legge al governo degli uomini. O della formalità delle procedure di decisione legittima alla legittimazione tradizionale o carismatica, autoritaria o populistica – tutte quelle che non necessitano di partecipazione personale di ciascuno alle decisioni nelle forme della rappresentanza democratica.
C’è tutto intero, in nuce, il senso della grande tradizione di radice kantiana di cui Bobbio è stato l’erede, insieme con i suoi maestri: i filosofi, i giuristi, i pensatori politici che stanno alla radice di Giustizia e Libertà, il movimento politico antifascista formatosi nel 1929 dalla confluenza di gruppi liberali di sinistra, repubblicani e socialisti che erano su posizioni critiche nei confronti dei partiti tradizionali dell’Italia prefascista.
Bobbio riconosce, oltre che negli Elementi di un’esperienza religiosa (1937) di Aldo Capitini, in La scuola dell’uomo (1938) di Guido Calogero un “breviario” di quel liberalsocialismo che nella reciproca implicazione essenziale dei due valori, giustizia e libertà, aveva il suo cuore pulsante. Guido Calogero fu in effetti autore del primo Manifesto del Liberalsocialismo, diffuso nell’estate del 1940, in cui giustizia e libertà appaiono come “specificazioni parallele di un unico principio etico”.3 E dopo che la storia della nostra giovane democrazia ci ha insegnato che tragedia fu la sconfitta politica del Partito d’Azione, il movimento che più limpidamente interpretava la grande tradizione dello studio moderno della giustizia, questo libro di Sandra Bonsanti aggiunge un pezzo di consapevolezza nuova intorno ai meccanismi degenerativi di quello che è pur sempre il regime politico meno peggiore che l’umanità abbia conosciuto, la democrazia con la sua rappresentanza dei cittadini attraverso le loro organizzazioni politiche, i partiti.
Già al centro dell’ultima riflessione di Norberto Bobbio c’è un’amara lezione, che trovo espressa con parole chiarissime in un saggio che uno studioso di scienze economiche ha dedicato a Il futuro della democrazia (1984):

“Dobbiamo probabilmente accettare l’amara lezione – di N. Bobbio e dei fatti – che la democrazia politica può anche servire a un popolo per realizzare il proprio degrado civile, economico, culturale. Il nuovo “patto di rifondazione” deve allora partire dalla presa d’atto di questa lezione, e proporsi di mutare alcune delle regole che hanno indotto tutti a giocare in modo individualmente vantaggioso, ma con esiti così deludenti per la collettività”4.

Sulla base questa amara lezione abbiamo forse da avanzare ancora un po’ oltre Bobbio, sulla strada che fu la sua: dobbiamo procedere ancora oltre gli ultimi fondamenti riconosciuti dalla modernità nello studio della giustizia, e che Bobbio riassume in Contratto e contrattualismo nel dibattito attuale 5.

E questa impresa va ben oltre i modesti limiti di questo nostra meditazione. Ma dal senso e dalla realtà di una piccola associazione come Libertà e giustizia, l’erede in ogni caso di quella grande tradizione sconfitta e tuttavia sempre rinascente che fu Giustizia e libertà, potrebbe ripartire. Oggi c’è un altro movimento che, senza essere ancora in grado di darsi regole capaci di salvarlo dal destino dei populismi, sostiene legittimamente la possibilità di una democrazia dove il consenso non sia raccolto e organizzato dai partiti, ma sfrutti le risorse comunicative della rete. Bobbio aveva già ventilato questa possibilità 6.
Invece di dedurne l’auspicio che vengano soppressi i partiti, però, se ne può ricavare uno sguardo diverso su quella che sopra abbiamo chiamato la tragedia che fu la sconfitta politica del Partito d’Azione. Per lo Stato italiano lo fu – ma forse proprio perché, come suggerisce Bobbio, non era nella natura di questo “orientamento della coscienza” di diventare un partito. La differenza non sta nell’assenza di organizzazione collettiva. Sta nel non avere altro centro di gravità che gli individui che in prima persona si impegnano, senza carriera né gerarchia.
Tutt’altra cosa dai partiti sono i circoli, le spontanee associazioni di libero (e gratuito) impegno per le cause di giustizia: le sole che in Italia, negli ultimi anni, abbiano tenuta viva la speranza del riscatto civile. E non è casuale che una fra di esse abbia quasi ereditato il nome di quella sconfitta (“Giustizia e libertà”), e lo abbia trasformato in una speranza (“Libertà e giustizia”). Del resto, nei grandi rivolgimenti civili che hanno segnato la storia, fame e sete, cioè l’oppressione dei bisogni materiali, giocano quanto fame e sete di giustizia, cioè la percezione di questo valore come più prezioso della propria stessa vita. Ogni volta che il pensiero pratico si rifonda, si rifonde nel fuoco del suo vertice, del suo valore più alto.

5. Oltre Bobbio? La questione dell’interesse pubblico e l’offerta di ordini di priorità

Ci sono altri sensi dell’opposizione fra potere visibile, essenza della democrazia, e potere invisibile che la minaccia, rimasti sottotraccia negli scritti di Bobbio. Certo, Bobbio studia una parte del senso della degenerazione che va insieme al “potere invisibile” – se vogliamo, il passaggio, ben descritto anche nel libro di Sandra Bonsanti, dall’esorbitanza del criptogoverno a quella del sottogoverno. Cioè dall’azione occulta a scopi ancora in certo modo ideologici (stragismo e terrorismo) agli accordi sottobanco e spesso fuorilegge, come elemento complementare di una progressiva crescita della rappresentanza degli interessi particolari sulla rappresentanza della Polis o della cittadinanza, l’interesse “pubblico” – che Bobbio fatica a ben definire. Eppure, si tratta del concetto tanto cruciale di cittadinanza: quello di “interesse generale di cittadino”7. Dove “generale” è l’opposto, non di “proprio” o “individuale”, ma di “categoria” dell’individuo “in un suo specifico ruolo” (portatore di interessi particolari).
Il saggio-recensione del libro citato di Bobbio, più o meno contemporanea alla sua uscita, che abbiamo già sopra citato chiarisce un punto che sarebbe oggi cruciale fosse compreso da ogni mente che voglia ricostruire una “sinistra”. Cito ancora:

“Ma che cosa sono gli “interessi generali” di un individuo nella seconda accezione, i suoi interessi cioè, non in quanto appartenente a questa o quella categoria economica, ricoprente questo o quel ruolo sociale, ma in quanto cittadino? Presumibilmente, questi “interessi di secondo grado”, come li chiamerei io – sono, più che delle rivendicazioni specifiche, dei criteri generali in base ai quali organizzare, dare dei pesi, delle priorità, agli ‘interessi di primo grado’. Sono precisamente questi criteri generali, ossia sono delle versioni alternative di “visioni degli interessi generali” che costituiscono le proposte ai cittadini dei partiti politici8.

Versioni alternative di “visioni degli interessi generali”: cioè ordinamenti diversi di valore o peso, importanza degli “interessi di primo grado”. Questa operazione di pensiero e giudizio – giudizio di valore – sembra proprio quella che i (dirigenti dei) partiti non sanno più fare, o forse che non hanno mai saputo fare. Perché, non meno dell’odierna “rivincita degli interessi particolari”, l’ideologia non sostituiva ma – in quanto aveva di automatico, di apriori – falsava ricerca, pensiero e giudizio, che restano tali anche dove diverse vocazioni, diverse aspirazioni, diversi ruoli e categorie sociali “vedono” diverse priorità di valore. E questo è il destino stesso dell’identità umana, fatta di individualità e cioè di diverse vocazioni assiologiche. Anzi, proprio sul piano delle vocazioni assiologiche, che corrispondono in parte alle identità culturali e morali, in parte ai talenti e ai caratteri delle persone, noi ci differenziamo e portiamo con ogni nascita e crescita qualcosa di nuovo al mondo, tanto più differenziandoci e opponendoci quanto più plurali e liberali si fanno le società: ben tristo lamento è quello che in questo ampliamento, anche tecnologicamente sostenuto, delle possibilità di scelta e autodeterminazione esistenziale e pratica delle persone, in questo conseguente emergere di nuovi soggetti e nuove rivendicazioni, vede il peccato : “atomizzazione”, perdita dei legami, “individualismo”, egoismo, edonismo e consumismo. Ma al contrario la nostra individualità ci distingue gli uni dagli altri, e a livello più aggregato oppone le une alle altre diverse identità culturali e morali, diverse “concezioni comprensive del bene” e diversi virtuali progetti di civiltà, precisamente in corrispondenza della sfera dei valori di personalità, civiltà, cultura, spiritualità, ricerca: al di sopra cioè della sfera dei valori vitali, di utilità e benessere. In questa sfera, invece, non fosse che per ragioni biologiche, i nostri desideri e bisogni restano assai uniformi e ben poco differenzianti, in questa sfera vigono in grande misura anche invidia mimetica, imitazione e conformismo e anche le loro degenerazioni: rapacità e avidità e quindi i meccanismi arcaici e tenaci dell’associazione opaca e del servilismo verso il potere, della delega di responsabilità al capo che è radice di crimini di massa e populismi, di combutte e tradimenti, di capri espiatori e congiure, insomma di tutta la squallida vita dei regimi del potere invisibile, i regimi di sudditanza opposti a quelli di cittadinanza. La discesa di tutta la politica a questo piano basso dove semmai crescono uniformità e conformismo, e certamente particolarismo ma non individualità trova la sua immagine simbolica nei volti e nei portamenti dei nuovi dominatori – la stirpe degli scilipotidi, appunto. Occorre invece che la politica risalga al ruolo che le sarebbe destinato nei regimi del potere visibile, le democrazie: e questo – se sviluppiamo oltre Bobbio l’argomento di Bobbio – è un risalire al piano specificamente personale dell’esperienza assiologica, là dove ogni vita trova la sua propria possibile vocazione, il tipo di beni che lei più di altre può portare al mondo, al livello dunque dei valori di personalità, civiltà, cultura, spiritualità, ricerca che danno poi senso a tutte le vite e fanno di questo mondo un posto dove valga la pena di vivere: e questa, non bisogna dimenticarlo, è la definizione kantiana di giustizia. Perché il segno che la giustizia è venuta completamente a mancare, dice Kant in pagine famose della sua Metafisica del Diritto, è che la vita umana perde senso e valore: non vale più la pena di essere vissuta. Che, se guardiamo all’attuale situazione di “disperanza” dei più fra noi oggi in Italia, anche fra quelli che hanno ancora da mangiare e da vestire – questa completa erosione di senso, valore, futuro, progetto, che va di pari passo con l’erosione di ogni idealità e dover essere, di ogni respiro ed eccedenza del diritto sul fatto e sulla forza – è proprio la nostra condizione odierna.
Che la politica risalga al piano dei valori delle persone come tali è fra l’altro l’indicazione forse più specifica della nostra Costituzione, di tutta intera la sua prima parte. E’ a partire dall’articolo 3, o dall’articolo 9, che bisogna comprendere correttamente anche l’articolo 1. E’ questa risalita al piano della dignità (cioè dei valori delle persone) che essa indica e sollecita. Ma i valori delle persone sono diversi, diverso è cioè l’implicito ordinamento che le preferenze e le scelte di ciascuno implicitamente manifestano. E questa diversità non significa affatto necessariamente che l’uno sia buono l’altro cattivo, non più di quanto Mozart sia migliore di Einstein o viceversa. Quello che invece è cattivo sarebbe un ordinamento che subordini il piano della personalità di ciascuno, quindi delle diversità e delle vocazioni – il piano della dignità – al piano dei valori strumentali (tipicamente quelli rappresentati da quel bene scambiabile con tutti gli altri che è il denaro) – a costo, come oggi regolarmente avviene, che sia umiliata la dignità personale dei più.
E tuttavia non può trattarsi, per la semplice politica, di sostituirsi a dio o alla sensibilità personale per ordinare ciascuna vita a un solo standard – questo sarebbe certamente l’incubo peggiore, ma anche quello che meno in questo momento ci minaccia. E così torniamo a quell’idea illuminante della politica, anzi dei differenti progetti politici in lizza, come diverse visioni dell’ “interesse di secondo grado” o interesse pubblico, quello del cittadino come tale: come elaborazioni diverse di “criteri generali in base ai quali organizzare, dare dei pesi, delle priorità, agli ‘interessi di primo grado’”, come “versioni alternative di ‘visioni degli interessi generali’”.
E qui sempre di ricerca, pensiero e giudizio di valore si tratta, e di norma (criterio) che orienta (illumina) la scelta, e poi la strategia. Ordinare preferenze di valore, offrire ordini di priorità: questo il compito vero dell’intelligenza e della ragione pratico-politica. Non si vede perché proprio colui che aspira a una società più giusta, cioè meglio ordinata, debba sottrarsi a questo compito, che è riempire di contenuti l’idea di giustizia ordinando le priorità dei beni dovuti.
Se non perché ha prevalso in lui, all’opposto, la pulsione di sopravvivere nel gioco del potere a qualunque prezzo, compreso quello di rapinare insieme il lavoro, l’industria e il territorio, compresa la complicità col crimine ecologico e ambientale. Che priorità di valori rappresenta un governo che ad onta del cospicuo soccorso europeo non riesce ad arrestare né il declino industriale né lo sbriciolamento di Pompei, e per il quale l’intera agenda politica consiste nel cambiar nome alle tasse e sacrificare la più elementare decenza penale e morale alla propria “stabilità”?
Un esempio positivo. Sull’interesse pubblico, cioè su un criterio di ordinamento delle priorità nella situazione attuale – prima che la distruzione del paese sia compiuta irreversibilmente – hanno meditato figure come Stefano Rodotà e Salvatore Settis. Essi hanno cercato di introdurre e sviluppare nuove categorie giuridiche, usando come leva ideale la Costituzione:

“Nella Costituzione della Repubblica, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, l’espressione “bene comune” non c’è. Eppure il suo principio ispiratore è precisamente il bene comune, in continuità con la publica utilitas che innerva la storia della Penisola.”9

Il libro di Salvatore Settis da cui traiamo questa citazione contiene una documentazione impressionante sullo sviluppo che la nozione romana di publica utilitas ha avuto nella ricerca giuridica contemporanea, con le nuove nozioni giuridiche di “diritti delle generazioni future” e “comunità di vita”,10 e in ambito italiano con i lavori della Commissione sui Beni Pubblici presieduta da Stefano Rodotà11 (giugno 2007 – febbraio 2008), che ha fra l’altro introdotto la categoria giuridica di beni comuni, aggiungendola a quelle di proprietà pubblica e di proprietà privata. Sono fondamentalmente i beni che tanto urgente sarebbe bonificare dall’inquinamento e salvare dalla distruzione:

[…] l’aria, le acque e le altre risorse naturali, come parchi e foreste, montagne e ghiacciai, coste e paesaggi tutelati, beni culturali, archeologici e ambientali, usi civici, fauna selvatica e flora tutelata.12

Ecco come si conclude il commento già citato che costituisce uno sviluppo illuminante, forse, del pensiero di Bobbio:

“Non è perché ciascun cittadino vota per chi gli promette i maggiori benefici e non per il più saggio che assistiamo alla “frantumazione del potere centrale”, ma perché i partiti (o i loro leader, ndr) hanno proposto e attuato delle visioni estremamente povere, de-strutturate, degli interessi generali dei loro elettori. I partiti e i sindacati hanno imparato che delle istituzioni, delle strutture, delle risorse pubbliche ci si può servire non per fornire i cittadini di beni pubblici, ma di benefici privati. E’ il fatto che questa sia la contropartita al voto che è l’oggetto dello scambio sul “piccolo mercato” che trasforma gli elettori in clientes, non lo “scambio politico” in sé”13.

Non ho trovato commento migliore al passaggio cruciale della famosa intervista resa da Enrico Berlinguer sulla Questione morale:

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i piùcontraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss” 14.

Su questo punto il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non solo non ha cambiato le cose, ma le ha semmai peggiorate. Quello zero di cui parla Berlinguer è diventato talmente ridens nella sua nullità rivestita di carte di cioccolatino da levare il mestiere ai comici di professione: eppure è il trionfo di questo nulla con cui si annuncia oggi la “nuova” leadership del partito che rappresenterebbe, diciamo, l’area democratico-progressista.

6. Conclusione su etica e politica

E’ ovvio ciò che da questa analisi discende. La premessa minima perché si riattivino, nella sfera della vita politica e di cittadinanza, ricerca, pensiero e giudizio di valore e di priorità è che si rimetta a fuoco il nesso ultimo della politica con l’etica. C’è un punto che da sempre dovrebbe splendere nella sua evidenza, e che solo il prolungarsi dei nichilismi tragici del Novecento nel nichilismo scilipotico di casa nostra e del nostro tempo ha offuscato: che la democrazia in quanto regime del potere visibile idealmente pone l’etica come limite negativo all’esercizio del potere politico: il limite di ciò che non è consentito fare, penalmente o moralmente parlando. Perché, appunto, come ancora lucidamente scriveva Bobbio, “Kant considera ‘concetto trascendentale del diritto pubblico’ il seguente principio: ‘tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste’. Qual è il significato di questo principio? In linea generale si può rispondere che una massima non suscettibile di diventare pubblica è una massima che, se mai fosse resa pubblica, susciterebbe tale reazione nel pubblico da rendere impossibile la sua attuazione”15.

Ma, oltre gli anni di Bobbio, l’abbiamo visto, il principio della visibilità indifferente del vergognoso si è imposto su quello del pudore, vale a dire sul limite propriamente morale prima che penale che l’etica pone alla politica, limite in forza del quale, in definitiva, esistono gli arcana imperii che da sempre hanno contraddistinto l’esercizio del potere politico: per poter aggirare quel limite. E allora, oggi che gli arcana imperii sono piuttosto i “patti indicibili” con le mafie e le associazioni a delinquere di tutte le risme (vedi ultimo caso a Roma, la truffa dell’azienda pubblica dei trasporti per accumulare fondi neri per i partiti perfino sui biglietti del tram!), e sono, senza dubbio, la parte sommersa ma in fondo abbastanza visibile delle cosiddette “larghe intese” (riforma costituzionale secondo il vecchino Piano di rinascita compreso!), oggi c’è un altro punto, per mettere a fuoco il quale bisogna andare oltre Bobbio anche in tema di rapporto fra etica e politica.

La mia tesi è che il nesso dell’etica con la politica oggi si esplichi in primo luogo nel compito precipuo e più trascurato che ha la nostra intelligenza : distinguere. Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male. E questa mescolanza è l’arma – in tempi in cui poca  presa hanno le ideologie nel senso tradizionale del termine – di cui si serve chiunque sguazzi oggi in quella totale erosione del normativo e dell’ideale a vantaggio dei fatti e delle forze, quella normalizzazione impunita dell’illecito, quel nuovo modo che ha il reale di considerarsi razionale, in cui abbiamo identificato la cifra del nostro tempo, qui, nel paese Italia.

Perché la mescolanza del bene e del male è un’arma? Perché per quanto scilipotica sia divenuta la coscienza di una maggioranza di politici di mestiere, è impossibile per un essere umano fare o accettare senz’altro, senza scusanti, che sia fatto il male “assoluto”, il male in quanto male, e riconosciuto per tale senza residuo, il male “puro”. Qualunque di quelle operazioni che Bobbio e Kant ritenevano inattuabili se non di nascosto, può farsi oggi alla luce del sole, purché nel corrivo silenzio di stampa e media – o nello stridore da pollaio dei talk show che tutto copre di una stessa patina di nonsenso. Ma deve mescolarsi di un pretesto di bene, o almeno del viscido ragionamento del “male minore”, come quello che in certa “sinistra” italiana giustifica il crimine ecologico e ambientale “purché” si salvi uno straccio di lavoro e occupazione.

Perché occorre sempre un pretesto, una scusante? Perché solo così lo sguardo può distogliersi dalla parte di male e volgersi a quella di bene, per quanto infinitesima. Guardatene la controprova: il male assoluto, il male da tutti riconosciuto tale, ha perduto l’artiglio, è diventato impotente: e infatti il male assoluto, se ci pensate, esiste per noi solo al passato, quando ha finito, per lo più, di uccidere. Così è la menzogna quando è da tutti riconosciuta tale – non fa più male a nessuno. Male vero fa quando è ancora mista di verità, e per questo tanti se ne credono legittimati a distogliere gli occhi dalla parte di menzogna. Anche la menzogna uccide solo finché non è assoluta.

E’ questa la sorte del male: medietà, mescolanza, ambiguità. Il suo color di topo è indifferenza, ignavia, terzismo: banalità. E’ la ganga sociale e consortile di cui si nutre ogni potere fondato sulla forza e su quel consenso passivo, impersonale e senza volto di cui è fatta infine sempre la violenza, e in primo luogo la violenza fatta alla verità. Il potere del farabutto è nel silenzio di chi non gli chiede ragione. Ci sono silenzi che hanno la stessa natura della nebbia e del fumo: offuscano le differenze, ottundono l’attenzione. O fanno prendere la consistenza e il colore del fumo anche alla parola, la cui essenza è luce, distinzione, chiarezza.
Di questa natura è il silenzio indifferente e il brusio come di un brulicar di topi – chi vincerà in quel partito, cosa farà quel capo, quanto ci guadagniamo noi – che rende tutta di un indistinguibile colore la grande stampa, e quasi tutta la grande informazione: color di morte, color di nulla. E ora possiamo ripensare, una volta ancora, alla vera tecnica di invisibilità che ha sostituito il folklore dell’occulto: il silenzio dell’informazione, la “cieca e dissennata assenza” (Calamandrei) dell’opinione pubblica. Possiamo ripensare alla protesta di quasi mezzo milione di cittadini contro il metodo piè-di-porco con cui un decreto governativo ha forzato la serratura della Costituzione, l’articolo 138 che stabiliva i modi e i tempi per modificarla. Ripensare a Piazza del Popolo gremita di persone accorse a denunciare l’arroganza di chi crede di star seduto sopra la costituzione, e non sotto: chi l’ha vista, sui canali televisivi dei servizi pubblici? Ripensare alle decine e decine di migliaia di individui che hanno tentato di far valere la loro voce contro l’ultimo ventilato provvedimento di amnistia, e nessun grande giornale ne ha dato notizia. Immaginare tutte queste persone nella solitudine del loro grido muto, privato di suono, soffocato. Con loro sta rischiando la sepoltura anche ciò che resta della nostra democrazia.

1 A. Giambartolomei, “Olivetti, così Lucia e gli altri sono morti per l’amianto”, Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2013
2 N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, ne Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p. 76
3 N. Bobbio, Autobiografia, cit., p. 45.
4 G. Costa, Problemi attuali della democrazia in Italia: alcune riflessioni su Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, non pubblicato, consultabile nell’Archivio Giuliano Marini (http://archiviomarini.sp.unipi.it), p. 8
5 N. Bobbio, Contratto e contrattualismo nel dibattito attuale, in Il futuro della democrazia, cit., pp. 125-147
6 N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, ne Il futuro della democrazia, cit., p. 99
7 Ibid., p. 33
8 G. Costa, Problemi attuali della democrazia in Italia: alcune riflessioni su Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p.7, c.vo nostro.
9. S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino 2013, p. 126.
10. Ibidem, p. 52.
11. Con i libri cui ha dato luogo: U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà (a cura di), Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, il Mulino, Bologna 2007 e I beni pubblici: dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 2010.
12. S. Settis, Azione popolare, cit., p. 106.
13 G. Costa, op. cit., p. 7
14 http://www.metaforum.it/berlinguer/questionemorale.htm, corsivi nostri.
15 N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in op.cit., p. 82

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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