Troncare e sopire

06 Nov 2013

Massimo Giannini

IL CASO Cancellieri-Ligresti si risolve secondo copione. Nel Palazzo d’inverno, dominato dai trasformismi e assediato dai populismi, c’è poca voglia di sfogliare fino in fondo il grande Romanzo del Potere. Si preferisce il Conte Zio di Manzoni, che troncava e sopiva. Il ministro della Giustizia esce dunque indenne dal Parlamento. Non solo non si pente e non si dimette. Ma alla fine incassa dalla strana maggioranza una rinnovata fiducia. Lievemente dolorosa quella del centrosinistra. Palesemente velenosa quella del centrodestra.
IL PD considera esaustivo il chiarimento per ragioni di coscienza istituzionale. Non rinuncia a ribadire «l’inopportunità» di quella conversazione con la compagna di Don Salvatore e la necessità di non distinguere mai più «tra cittadini di serie A e cittadini di serie B». Ma alla fine assolve il Guardasigilli, ancora una volta in nome di quella «responsabilità» che ieri gli ha imposto di sostenere il governo Monti e oggi gli impone di non far naufragare il governo Letta. Il Pdl, viceversa, fa quadrato sulla Cancellieri per ragioni di convenienza strumentale. La difende la perché vuole dimostrare che la sua telefonata alla signora Ligresti per «mettersi a disposizione» è legittima almeno quanto la telefonata di Berlusconi alla Questura di Milano per far liberare Ruby «nipote di Mubarak». Un’equivalenza impossibile e inaccettabile. Ma è solo in nome di questo ennesimo illusionismo politico, e non certo di un presunto «garantismo» giuridico, che oggi il partito del Cavaliere si schiera a fianco del Guardasigilli.
La Cancellieri aveva diverse questioni di cui rendere conto, di fronte al Parlamento e al Paese. Ma c’era soprattutto una domanda, capitale e dirimente, che esigeva una risposta limpida e convincente. Perché quel 17 luglio, nel giorno dell’arresto di Ligresti e delle sue figlie, sentì il bisogno di telefonare a Gabriella Fragni, e di dirle: «Senti, non è giusto, non è giusto, lo so, povero figlio… Comunque guarda, qualunque cosa io possa fare, conta su di me… Appena riesco ti vengo subito a trovare, però qualsiasi cosa, veramente, proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti, guarda, non è giusto, non è giusto…».
Cosa «non è giusto» (ripetuto per ben quattro volte) nell’iniziativa dei magistrati che fanno scattare le manette ai polsi di una dinastia responsabile di un buco da 1 miliardo di euro, succhiato ai bilanci della Fonsai per soddisfare gli interessi personali del clan? E cosa vuol dire quel «qualsiasi cosa adesso serva» che il Guardasigilli si dichiara disposto a fare, per rimediare a quella «ingiustizia»? Infine, ed è il nodo cruciale della vicenda: può un ministro della Giustizia, pur animato dall’amicizia, esprimersi così di fronte a un’iniziativa disposta dall’autorità giudiziaria, di cui dovrebbe essere invece garante?
Questi dubbi la Cancellieri non li ha dissipati. Ha rivendicato ancora una volta l’assoluta correttezza del suo operato. In quella telefonata, sostiene, «intendevo manifestare un sentimento di umana vicinanza a una persona che si era venuta a trovare in una situazione di eccezionale emotività… Le espressioni da me usate in quel contesto erano dunque finalizzate a creare empatia… «. Un movente comprensibile, ma non giustificabile. In quelle parole — pronunciate un mese prima della richiesta dei domiciliari per Giulia Ligresti, in quel momento non certo sofferente né di anoressia né di depressione — c’è molto più che «umana solidarietà» e molto più che «empatia ». C’è invece un preciso giudizio di merito su quanto accaduto (cioè gli arresti dei Ligresti), che si traduce nella solidarietà alla famiglia e nella delegittimazione dei magistrati.
Rispetto all’orgogliosa rivendicazione di quel colloquio, espressa nelle interviste rilasciate in questi giorni, in Parlamento la Cancellieri azzarda una parziale presa d’atto: «Mi rendo conto — afferma in aula — che alcune espressioni usate in quella telefonata possono aver ingenerato dubbi sul senso delle mie parole: mi dispiace che sia stato così e mi rammarico di aver fatto prevalere i sentimenti sul doveroso distacco che un ruolo di ministro aveva forse dovuto imporre». Purtroppo il «rammarico» non basta. Anche perché a inficiarne l’autenticità c’è un «forse» di troppo, riferito al «doveroso distacco» che il ruolo di ministro le imponeva. Aggiungere quell’avverbio equivale a non capire (o a fingere di non aver capito) l’enormità dell’errore commesso.
Un secondo dubbio che il ministro non ha dissolto riguarda quello che poi accadde il 28 agosto, quando Giulia Ligresti viene effettivamente rilasciata dal carcere di Vercelli e trasferita agli arresti domiciliari. «La scarcerazione — precisa il ministro — non è avvenuta a seguito o per effetto di una mia ingerenza, ma per indipendente decisione della magistratura torinese… Non ho mai sollecitato nei confronti di organi competenti la scarcerazione e non ho mai indotto altri ad agire in tal senso… ». Eppure, nelle dichiarazioni che lo stesso Guardasigilli rende ai procuratori di Torino Vittorio Nessi e Marco Gianoglio il 22 agosto, c’è scritto
nero su bianco che la sollecitazione c’è stata, ed è stata successiva alle pressioni della famiglia di Paternò.
«Effettivamente — dichiara a verbale il Guardasigilli — ho ricevuto una telefonata da Antonino Ligresti che conosco da molti anni. Ligresti mi ha rappresentato la preoccupazione per lo stato di salute della nipote Giulia Maria la quale, soffre di anoressia e rifiuta il cibo. In relazione a tale argomento ho sensibilizzato i due vice capi di dipartimento del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano, perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati ». Ricapitolando: mentre in Parlamento la Cancellieri giura di non aver «sollecitato» nessuno, ai pm ha detto di aver «sensibilizzato i due capi di dipartimento del Dap». E mentre in Parlamento il ministro ripete che allo stesso modo si è «comportata in molti altri casi, non ho bisogno di farne i nomi, sono tanti ed anonimi, più di cento solo negli ultimi mesi», con i pm deve riconoscere che il suo «interessamento diretto» è avvenuto «per un carcerato soltanto»: Giulia Maria Ligresti, appunto.
A supporto della sua tesi, il Guardasigilli cita il capo della Procura di Torino: «Sarebbe arbitrario e destituito di ogni fondamento» — scandisce di fronte ai parlamentari — il tentativo di ricondurre alla sua intromissione il rilascio della figlia di Don Salvatore, visto che «lo stesso Giancarlo Caselli ha ricordato più volte che a determinarla sono state esclusivamente le condizioni di salute della donna e la sua richiesta di patteggiamento». La pezza d’appoggio si vede, ma non ripara. Caselli ha in effetti «scagionato» la Cancellieri, ma si fatica a comprendere a quale titolo. La decisione sulla richiesta dei domiciliari, secondo il codice di procedura penale, non spetta alla Procura, che in teoria non è neanche titolata a conoscerla, ma esclusivamente al Tribunale di Sorveglianza. Dunque, anche in questo caso, il «chiarimento» non chiarisce.
E lo stesso, infine, si può dire del coinvolgimento nella vicenda del figlio del ministro, Piergiorgio Peluso, assunto in Fonsai nel maggio 2011 e uscito due anni dopo con un bonus da 3,6 milioni, dopo aver fatto esplodere il crack finanziario della compagnia. La Cancellieri giudica assolutamente «indebito» quel coinvolgimento. Eppure il nome di Peluso non è il frutto di alcun «complotto» e meno che mai è il prodotto della «macchina del fango», che lo stesso ministro ha evocato più volte in questi ultimi giorni. Suo figlio compare invece più volte nelle carte dell’inchiesta Fonsai, agli atti della Procura torinese. Ed è lo stesso Guardasigilli a parlarne.
Basta riprendere di nuovo in mano il brogliaccio della telefonata del 17 luglio con la Fragni, per averne conferma: Dice il ministro, all’amica in lacrime: «Sono veramente dispiaciuta. Ma sono mesi che ti voglio… Poi ci sono state le vicende di Piergiorgio… «. La Fragni risponde: «Anche io non ho mai chiamato perché mi veniva sempre in mente quel discorso che mi avevi fatto in cascina: “Non sono contenta, non vorrei che ci andasse di mezzo la nostra amicizia”…». Ecco il macigno che in quel momento sembra pesare sul cuore del ministro. Quasi un inconfessabile «senso di colpa», che le ha impedito di parlare per mesi con la famiglia siciliana, visto che è stato proprio suo figlio a smascherarne i falsi in bilancio, quindi a far partire le inchieste e infine gli arresti. Il Guardasigilli se ne duole, nella «confessione» telefonica con l’amica: «Ah guarda, maledetto quel momento… ».
L’autodifesa che non difende finisce qui. La storia resta opaca, anche se la coalizione di governo, per mutue ancorchè opposte convenienze, si illude di vedere «piena luce» nella ricostruzione del ministro. Di dimissioni, com’era prevedibile, non si parla neanche più. Vale il motto di Flaiano: in Italia la rivoluzione non si farà mai, perché alla fine ci conosciamo tutti.

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