La rivoluzione che aspettiamo

18 Ott 2013

Pubblichiamo l’intervento sulla crisi economico-sociale del Paese tenuto oggi da Carlo De Benedetti al convegno dei Giovani imprenditori di Confindustria. “L’Europa, e l’Italia in particolare, – scrive l’ingegnere – oggi sono la zavorra della crescita mondiale. Non c’è un solo dato che ci induca davvero ad essere ottimisti. Se continua così rischiamo che, così come il 2013 è stato peggio del 2012, il 2014 sarà peggio del 2013, in una tendenza al declino che si fa anno dopo anno sempre più strutturale”.

crisi_330Permettetemi di non fare un intervento di quelli da convegno, non sarò polished, non sarò educato, ma il momento che stiamo attraversando non ci permette di essere ordinari e gli anni che ho mi consentono qualche libertà in più. Del resto siamo a Napoli, città straordinaria per eccellenza, e qui più che altrove non avrebbe senso mettersi l’abito inglese del tè alle cinque di pomeriggio.
La dico tutta e la dico subito: non c’è una ripresa economica che abbiamo a portata di mano. Quando sento parlare di “segnali di ripresa che stiamo o che dobbiamo agganciare” penso subito che l’interlocutore stia provando a fregarmi. Ricordo Monti che vedeva la luce in fondo al tunnel nell’estate del 2012. Ebbene stiamo ancora tutti lì a guardare dall’altra parte del tunnel ma è sempre nero pesto.

L’Europa, e l’Italia in particolare, oggi sono la zavorra della crescita mondiale. Non c’è un solo dato che ci induca davvero ad essere ottimisti. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, continua ad aumentare. Non c’è settore d’impresa che veda una ripresa
degli investimenti. I consumi stanno ulteriormente crollando. Malgrado i nostri sforzi, malgrado la tenacia di molti di voi, il paese si deindustrializza rapidamente. L’economia si sta fermando. Se continua così rischiamo che, così come il 2013 è stato peggio del 2012, il 2014 sarà peggio del 2013, in una tendenza al declino che si fa anno dopo anno sempre più strutturale.

E non è solo il declino economico. Perché tante volte il nostro Paese ha subito cicli economici negativi, anche molto negativi – chi tra di noi ha attraversato gli anni 70 lo sa bene – ma quello che più deve preoccuparci è una sorta di declino morale che noi italiani stiamo vivendo. E’ il senso di frustrazione, quasi di avvilimento, che sta contagiando tutti, anche noi imprenditori, anche quei giovani che devono essere invece la molla del rilancio. Fate un giro nei Paesi emergenti: in Brasile, in Corea, a Shanghai, a Santiago in Cile. Il senso del futuro lo vedi nel sorriso della gente, nel loro sguardo. E’ gente che il proprio destino vuole costruirselo pezzo per pezzo, strapparlo a morsi. Gente che ha fiducia, che crede in quello che fa e crede nel proprio Paese.

I cileni hanno messo in piedi un piano per attrarre investimenti in start-up da tutto il mondo. Hanno avuto un successo straordinario, con migliaia di nuove imprese nate in pochi anni. Ma hanno avuto quel successo perché ci credevano. E quando andavi a parlargli lo
vedevi. Ci credeva il giovane dirigente del ministero che aveva messo su il piano (un quarantenne che aveva studiato negli Stati Uniti) e ci credevano i giornali, le televisioni locali, l’opinione pubblica. Si è creato, intorno a quel progetto, un entusiasmo collettivo, che era il vero segreto dell’iniziativa.

E’ una spinta, morale appunto, che a noi è venuta meno da tempo. E’ venuta meno a tutti i livelli della nostra società, in tutte le componenti della nostra opinione pubblica. E questo è successo certamente per l’anomala durata della crisi economica, che toglie speranze anche ai più fiduciosi, ma anche – e soprattutto – perché da troppi anni la classe dirigente di questo Paese è rimasta immobile, immutata e clamorosamente incapace di assolvere alla propria funzione. Ce l’ho con la politica? Certo che ce l’ho con la politica, ce l’ho con la cattiva politica. Come si fa a non avercela con questa politica fatta in gran parte di cinici intenti a fare solo i propri interessi? Ma non ce l’ho solo con la politica. Ce l’ho, per esempio, con quello che qualcuno ancora chiama il salotto buono della finanza, che poi non ho mai capito cosa avesse di “buono”, e dal quale certamente ho sempre cercato di tenermi alla larga.

Quanto tempo fa quel salotto ha smesso, se mai lo è stato, di essere un elemento positivo per il paese? Quanto tempo fa è diventata la grottesca reiterazione di schemi che, dietro la facciata delle operazioni di sistema, nascondevano solo il credito facile agli amici del
sistema, magari a braccetto con la politica, e tagliando fuori da una sana politica di credito la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane? E quanti tra noi imprenditori – perché dobbiamo dircele le cose – hanno pensato che far parte di quel sistema potesse essere un modo per sopravvivere, per salvare le proprie aziende, magari per avere la meglio su un concorrente. Solo che poi, in questo modo, si finisce solo per rallentare il fallimento. Che poi inesorabilmente arriva. Si compra tempo, ma non si reagisce. Si rinuncia di fatto al futuro.

La vicenda dell’Alitalia, in questi cinque anni, dai “patrioti” ad oggi, è uno dei simboli di tutto questo, del perverso scambio di interesse tra una politica che guarda solo al consenso immediato e imprese e banche che guardano solo al tornaconto altrettanto immediato. E la Telecom? La più grande impresa italiana, con il più grande potenziale di crescita nel mondo, è stata scarnificata in vent’anni fino all’umiliazione finale di vederla passare in queste settimane agli spagnoli con un’operazione che ha dello scandaloso. Nessuna Opa, nessuna trasparenza in favore dei piccoli azionisti, solo un’intesa più o meno sotterranea con le banche che non vedevano l’ora di ridurre la propria esposizione. Uno dei momenti più bassi del nostro capitalismo.

Potrei andare avanti per ore. Perché la conosco bene questa classe dirigente. Potrei citare i dirigenti generali dei ministeri che, immutati nei secoli, traggono il loro potere dalla quantità di autorizzazioni, procedure, moduli con cui vessano e scoraggiano chiunque avesse voglia di investire nel nostro Paese. Potrei citare certe alte magistrature, che in un rutilante scambiarsi di cariche e incarichi, tengono in ostaggio l’amministrazione e spesso la politica stessa. Potrei citare i signori degli ordini professionali, gli eterni capi e capetti del sindacato, anche certe vestali della cultura italiana, che pensano che i beni culturali, la letteratura o il teatro siano cosa loro. Tutti, ma proprio tutti, che contribuiscono, seppur con responsabilità diverse, a un sistema bloccato e, appunto, declinante.

Serve una rivoluzione, una rivoluzione culturale e generazionale. Non c’è niente altro da fare, non ce la caveremo con un taglio di spesa in più o in meno, con un cuneo fiscale più o meno spuntato, con qualche liberalizzazione o con l’ennesima semplificazione
annunciata e mai praticata. Sono tre anni che leggo di decreti sulle semplificazioni, ma qui non si semplifica mai niente. Mai niente. E’ di questi giorni la manovra del governo Letta, la prima manovra di Letta e Saccomanni. Due persone che stimo. Ci avevano detto di aspettare, ci avevano detto – da mesi – che la legge di stabilità sarebbe stata l’occasione per fare tutto, per fare quei provvedimenti necessari a rilanciare la crescita, ad “agganciare la ripresa” appunto. Leggo ora che nel 2014 avremo 2 – 3 miliardi di riduzione del cuneo fiscale, un po’ di risorse per le infrastrutture… Dov’è la svolta? Dov’è l’ambizione del rilancio della crescita?

Ma il problema non sono Letta e Saccomanni. Cosa possiamo aspettarci, se non il minimo sindacale, da questo governo, da questa politica? In questa Italia? In questa situazione? Perciò serve una rivoluzione. Va ribaltata dal profondo questa Italia vecchia, bloccata dalle rendite di posizione, dagli interessi di parte, dal cinismo di chi considera il potere un fatto privato da gestire a scopi privati, dai tanti che cercano solo di restare aggrappati a quel residuo di benessere e di privilegio che viene dal passato. Il grande tema che abbiamo di fronte è la classe dirigente da cambiare. Le consorterie da combattere. Le corporazioni da abbattere, così come i poteri di veto sindacali e soprattutto questa orribile politica che si occupa sempre d’altro e mai dei problemi del Paese. La tragedia di Lampedusa, avvenuta nel mezzo di una discussione oscena sulla possibile crisi di governo legata alle sorti private di Berlusconi, è stata davvero una bomba che, esplodendo, ci ha rivelato l’inutilità e il carattere grottesco della nostra discussione politica. C’è un’intera classe dirigente che deve lasciare il posto alla generazione dei trentenni. Anche dei quarantenni, ma io indico proprio i trentenni. Perché solo loro sono davvero fuori dalle incrostazioni, dai tanti legami e dai tanti lacciuoli, che in qualche modo fanno di tutti noi uomini del passato. Noi possiamo e dobbiamo favorire questo ricambio. Ma dobbiamo anche lasciar fare. Dobbiamo permettere a chi ha voglia e animo per costruire il futuro di questo Paese di poterlo fare.

Anche perché io sono convinto – e mi avvio a chiudere – che un posto per l’Italia, nel mondo che sta cambiando, c’è e ci sarà anche in futuro. Paradossalmente noi abbiamo più futuro di altri Paesi europei. Forse anche più della Germania. Se io fossi un olandese o
un belga sarei disperato pensando al futuro di quei paesi tra vent’anni. L’Italia e gli italiani, invece, hanno grandi atout da potersi giocare, grandi prerogative che possono garantirgli uno spazio non banale nel nuovo assetto mondiale. Il mercato globale, con le classi medie in ascesa in Cina, in Russia, in India, in Brasile, chiede l’eccellenza e la pagherà sempre meglio. L’Italia è il Paese dell’eccellenza. La forza dei nostri marchi non ha eguali. La Vespa e la Ferrari, le scarpe italiane o il vino italiano, la Nutella. Ma anche le nostre grandi navi, il design che arricchisce di valori simbolici ogni prodotto, il territorio, i beni culturali. Siamo un Paese che sembra fatto apposta per essere vincente nei nuovi assetti del mercato internazionale.

Bill Gates mi diceva che se avesse potuto contare sul patrimonio degli Uffizi avrebbe messo su un impero grande come un multiplo di Microsoft. Qui a Napoli avete Pompei: quale marchio è più potente di Pompei in un mondo dove miliardi di persone si stanno per
affacciare a nuovi consumi e bisogni di tipo culturale e turistico? E ancora: quale enorme valore economico possono esprimere le nostre città storiche? Non solo quelle grandi, anche i piccoli centri individuati da Robert Putnam qualche hanno fa come modelli perfetti di sviluppo nel futuro mondo delle reti. Non ce la faremo, però, se non avremo il coraggio di un cambiamento profondo. Il coraggio, forse l’ambizione, oppure semplicemente la consapevolezza che la realtà del mondo oggi non ci dà alternative. Credo davvero sia il momento delle scelte. Prima citavo gli Uffizi. Sotto quelle sale, davanti Palazzo Vecchio, c’è una statua che ho sempre amato. Quel David che Michelangelo ha rappresentato con sguardo fiero nel momento della scelta. Molti secoli fa quel suo sguardo è stato lo sguardo con cui i banchieri fiorentini conquistavano il mondo. Ecco, la rivoluzione che serve all’Italia, si fa anche con quello sguardo. David aveva 37 anni quando diventò re di Israele e di Giudea. Voi siete giovani come lui, fatevelo dire, datevi una mossa, tocca a voi.

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