Costituzione: unica speranza di salvare l’Italia dalla bancarotta morale

16 Ott 2013

Il testo che Alberto Vannucci aveva preparato per la manifestazione di sabato e che non è riuscito a pronunciare per limiti di tempo. Vannucci insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione.

Alberto_VannucciUna democrazia sana non deve temere la corruzione dei potenti, l’immoralità dei grandi, come la chiama un grande pensatore liberale dell’800, Tocqueville. Una democrazia ben funzionante ha in sé gli anticorpi per isolare corrotti e disonesti, non inserendoli nelle liste elettorali – grazie a partiti degni di questo nome – oppure non eleggendoli – grazie a cittadini degni di questo nome. E’ già un segnale di allarme che serva una legge per cacciare i corrotti dagli scranni del Parlamento che occupano indegnamente. Ma secondo Tocqueville una  democrazia è veramente in pericolo quando la coscienza pubblica è inquinata dalla sensazione che sia proprio l’immoralità la qualità che assicura la grandezza. Quando si diffonde l’idea che la disponibilità alla corruzione sia la chiave che apre le porte dell’ascesa nei partiti, nelle imprese, nella burocrazia. Ne scaturisce – cito testualmente – “una connessione odiosa di bassezza e potere, indegnità e successo, abuso e diritto”. E’ in questo pantano che la politica democratica rischia di sprofondare.

Tocqueville non parla dell’Italia, che ancora non esisteva, eppure lo scenario che descrive ci è familiare. I politici che oggi si ergono a riformatori della nostra Costituzione sono gli stessi che nel mondo sono considerati più corrotti di quelli del Ghana, della Giordania, di Cuba, della Namibia, paesi di tradizioni democratiche piuttosto deboli, per usare un eufemismo.

Secondo un testimone autorevole queste sono le virtù della classe politica che dovrebbe riscrivere la nostra Carta costituente:“tanto più rissosa quanto più immobile, ripiegata su se stessa, sorda ai veri interessi che dovrebbe rappresentare”. Non è un paladino dell’antipolitica, ma il premier Enrico Letta nel chiedere la fiducia al Senato, pochi giorni fa, in un discorso dove la parola corruzione non è mai stata menzionata, neppure di sfuggita – forse perché è un tema divisivo, ci dicono, per quanto tutti sembrino d’accordo nel rimuoverla dall’agenda politica.

Ma la legalità è diventata un optional nei programmi del governo delle larghissime intese, dove si finge di litigare alla luce del sole, ma poi ci accorda sottobanco. Formulare una seria proposta anticorruzione significherebbe parlare di futuro, risconoscere che l’integrità di chi amministra il bene pubblico è la condizione necessaria di qualsiasi politica lungimirante. Purtroppo è impossibile riconoscere una visione di lungo respiro, una qualsiasi idea di sviluppo dietro all’impasto di miopia, inconcludenza e malafede con cui questa oligarchia impaurita, chiusa alle sfide del merito e della trasparenza, sembra gestire la cosa pubblica come un affare privato.

Cosa sono molti politici italiani se non lo specchio fedele dei meccanismi di selezione della classe dirigente, che da troppo tempo premiano il servilismo dei portaborse, il rampantismo dei piccoli oligarchi di provincia, l’affabilità untuosa di faccendieri che si spacciano per imprenditori, o magari altre qualità nascoste, di solito affinate nel corso di “cene eleganti”. Eppure questa politica debolissima, a picco nel discredito popolare, di tanto in tanto si riscuote, ha voglia mostrare i muscoli.

Di solito accade quando si presenta l’occasione d’imbandire l’ennesima mangiatoia di stato, ad esempio grazie a un’inutile linea ferroviaria ad alta velocità, o a una fornitura miliardaria di cacciabombardieri afflitti, dicono, qualche difettuccio strutturale. Viene il sospetto che a dare energie a una politica esangue sia in questi casi, e solo in questi casi, la spinta sotterranea del partito unico degli affari, la cabina di regia delle molte “cricche” che ingrassano nell’ombra depredando il bene comune, i soli centri di potere che oggi sono in grado di guardare lontano per pianificare i propri guadagni illeciti e smuovere montagne – meglio ancora perforarle o cementificarle – a proprio esclusivo profitto, se necessario anche militarizzando una valle intera.

In un paese in cui si tagliano finanziamenti a istruzione, ricerca, cultura, sanità e servizi sociali, dove non si trovano neppure i fondi per mettere in sicurezza le scuole, abbiamo imparato a conoscerlo fin troppo bene il gigantismo sbruffone delle “grandi opere”, quasi sempre superflue, trascinate per decenni o eterne incompiute – grandi opere che diventano immancabilmente grandi abbuffata per pochi. E’ un modello sperimentato con successo sfruttando emergenze reali come terremoti o creandone di artificiali come i rifiuti nelle strade, moltiplicandole poi all’infinito senza mai risolverle, visto che la loro funzione è una sola: creare centri straordinari di potere con cui scavare voragini nei bilanci pubblici.

Proviamo allora a chiederci perché una politica tanto screditata si intestardisca con armonia bipartisan a perseguire propositi di palingenesi costituzionale. Perché proprio in questo Parlamento di nominati sta maturando la volontà di trasformarsi d’incanto in una fucina di futuri Padri Costituenti?

Credo che le ragioni siano almeno due. La prima è un naturale bisogno di assoluzione – siamo un paese di tradizioni cattoliche, del resto. Dirottando l’attenzione e il discorso pubblico sulla “vecchia” Costituzione – di “ispirazione sovietica”, come la definì un nostro ex-presidente del Consiglio – quella stessa Costituzione diventa il capro espiatorio che ripulisce questa classe politica da tutti i suoi peccati, da tutti i suoi fallimenti. E’ colpa della Costituzione, ci raccontano, se balliamo sul filo della catastrofe finanziaria, se da un decennio siamo tra gli ultimi al mondo per crescita economica, in coda tra i paesi europei per competitività, disuguaglianze sociali, tempi della giustizia, se balziamo ai vertici solo quando si misurano corruzione, evasione fiscale, bassa istruzione, debito pubblico. Non è una responsabilità dei politici, è la Costituzione che “non li ha lasciati lavorare”, sono i vincoli posti dalla Carta all’azione di governo, sono i troppi diritti sociali garantiti.

E qui entra in gioco un’altra motivazione. La direzione verso cui si vuole indirizzare il cambiamento costituzionale non è quello di un’ordinaria manutenzione, condivisibile e di buonsenso: i parlamentari sono troppi, il bicameralismo perfetto è un lusso che non ci possiamo più permettere, i confini tra autonomie locali e poteri statali vanno disegnati più accuratamente. Quella che si propone è una riscrittura coerente con un disegno “aziendalistico” di presunta razionalizzazione dei meccanismi di governo, i cui capisaldi sono rafforzamento dell’esecutivo, parlamento al guinzaglio, mordacchia alla magistratura, spacciata per riforma della giustizia. Un modello di governo che sicuramente avrà almeno un beneficiario certo, riconoscibile fin d’ora: il partito unico degli affari, il collante invisibile del connubio bipartisan che assicura stabilità a grandi intese manifeste e grandi profitti nascosti. Forse lo si nobilita fin troppo evocando l’ombra del Piano di rinascita nazionale di piduista memoria. Più tristemente, questo coagulo di poteri rischia di tradursi – viste le qualità morali esibite da ampi segmenti della nostra classe politica e imprenditoriale – in una sorta di “cricca della Protezione civile” all’ennesima potenza, con una patina efficientista che maschera interessi opachi se non illegali, per giunta sciolto dal controllo di una magistratura indipendente dal potere politico e dai potentati economici.

Forse allora la fregola di buttare la Costituzione come un vecchio arnese riflette anche la consapevolezza e la preoccupazione di questi improvvisati padri costituenti di come quel testo abbia in sé le potenzialità, se tradotto in pratica corrente, di diventare il più potente baluardo contro la corruzione dilagante. Basti pensare alla portata rivoluzionaria dell’art. 54, che sposa il dovere di tutti i cittadini di rispettare le leggi con quello ulteriore, per gli amministratori pubblici, di adempiere con “disciplina e onore” le funzioni loro affidate, o dell’art. 97, che sancisce i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, cui si deve accedere per concorso. E parliamo di concorsi veri, dove si attribuisce valore soltanto al merito, a quanto pare sempre più rari in un paese dove ci sono rettori si “prosternano” e si mettono “a disposizione” del politico per assicurare un 30 al suo raccomandato, e aspiranti medici che si guadagnano la specializzazione facendo da autisti al barone di turno. Perché – lo dice lo scrittore Balzac – la corruzione è l’arma dei mediocri, e premiare talento e competenze significa sciogliere quei legami invisibili che sono il brodo di coltura del malaffare.

Non è la nostra vecchia Costituzione il problema, ma la rimozione chirurgica dei suoi valori, delle sue disposizioni più scomode dalla prassi politica e dall’etica pubblica. E allora facciamo tesoro della nostra Costituzione nata dalla resistenza, la stessa che ci ha permesso di ricostruire il paese dalle macerie della seconda guerra mondiale e di resistere in questi anni difficili, la sola che può darci oggi la speranza di risollevare l’Italia dalle macerie della bancarotta morale, prima ancora che finanziaria, nella quale l’ha sprofondata questa politica corrotta.

* Il testo che Alberto Vannucci aveva preparato per la manifestazione di sabato e che non è riuscito a pronunciare per limiti di tempo. Vannucci insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione

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