Quando Calamandrei consacrò il nuovo inizio dell’Italia antifascista

11 Ott 2013

Ma anche adesso, in un momento di grave crisi finanziaria, era davvero necessario dar vita a comitati e comitatini, più o meno lottizzati, per proporre riforme costituzionali? Non è sufficiente, per un governo di transizione, preoccuparsi di riformare la grottesca legge elettorale e tentare di risolvere i problemi economici e sociali?

calamandreiNel famoso discorso che Piero Calamandrei fece nella seduta dell’Assemblea costituente del 4 marzo 1947 c’è, nel finale, un passo severo e insieme commosso che fa riflettere amaramente se si confronta quel passato al nostro presente: «Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne (…). Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene, che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda».
Presa a modello nel mondo civile per il suo respiro, il suo coraggio nella tutela dei diritti dei cittadini, la Costituzione non ha avuto una sorte fortunata. La storia non si è «trasfigurata nella leggenda», come sognò il grande giurista. La Carta della Repubblica, il suo Vangelo, ha avuto e seguita invece ad avere nemici implacabili che allora come oggi, soprattutto in questi ultimi vent’anni, seguitano a considerarla «la nemica», un inciampo, un ostacolo da rimuovere, una legge arcaica ritenuta responsabile della mancata modernizzazione del Paese.
Le Edizioni di Storia e Letteratura hanno pubblicato in un aureo libretto quel discorso di Calamandrei, Chiarezza nella Costituzione (pp. 67, e 9), con un’appassionata introduzione di Carlo Azeglio Ciampi che fa rivivere lo spirito della giovinezza, la fiducia e le speranze di allora, nonostante le inaudite difficoltà dell’«Italia, sfiancata da anni di totalitarismo e di isolamento culturale. (…) Avvertivamo l’impegno e la responsabilità di contribuire con le nostre idee e con il nostro lavoro a restituire dignità all’Italia e a noi stessi».
Le speranze caddero presto. La guerra fredda e l’eterna compromissione nazionale impedirono una rottura radicale col passato. Gli anni 50-60, il periodo del centrismo democristiano, non furono per nulla da rimpiangere, come invece ha sostenuto nel suo discorso in occasione della fiducia al Senato il presidente del Consiglio Enrico Letta. L’epurazione fu una burletta, i fascisti, «i fantasmi della vergogna», come li definì Calamandrei in una sua celebre epigrafe, tornarono a dettar legge in posti di responsabilità, la discriminazione nei confronti della sinistra fu ferrea, gli operai comunisti e socialisti furono isolati nei reparti-confino delle grandi fabbriche, il centrosinistra originario, anni dopo, andò a gambe all’aria alla svelta, i tentati colpi di Stato, come quello del generale De Lorenzo, nel 1964, inquinarono ogni fervore.
Calamandrei — morì nel 1956 — fu profondamente deluso. Definì l’amata Costituzione L’incompiuta , dalla famosa Sinfonia in si minore di Schubert. In effetti istituti fondamentali previsti nella somma Carta tardarono decenni: la Corte costituzionale fu istituita nel 1955, il Consiglio superiore della magistratura nel 1958, le Regioni nel 1970, i codici sono mantelli di Arlecchino, corretti via via da interventi parziali, con l’eccezione del Codice di procedura penale rifatto nel 1988.
Il revisionismo degli anni 90 è diventato la carta vincente di una certa cultura politica del berlusconismo. Scrive Ciampi nella sua introduzione di aver giudicato con ammirazione i propositi dei costituenti di far sì che la Carta avesse come fondamento gli ideali e i valori comuni: «Mi riferisco proprio a quelle stesse soluzioni che oggi una saggistica e una storiografia mediocre pretendono di “rivedere” abbassandole a compromessi, frutto di opportunismo e di scambi inconfessabili». Bisogna tener conto che i costituenti del 1947 erano di livello intellettuale e politico assai alto: Luigi Einaudi, De Gasperi, Moro, Togliatti, Terracini, Dossetti, La Pira, Concetto Marchesi, Di Vittorio, Giorgio Amendola, Antonio Giolitti.
Come dimenticare la famosa costituente della baita di Lorenzago, nel Cadore, dove Roberto Calderoli, Francesco D’Onofrio, Domenico Nania e Andrea Pastore compilarono in 5 giorni (20-25 agosto 2003) 56 articoli della seconda parte della Costituzione che stravolgeva proprio quello spirito unitario del 1947? Furono puniti dagli elettori — esiste anche un’altra Italia — che al referendum del 25-26 giugno 2006 bocciò col 61,32 per cento dei voti quel dissennato progetto di legge costituzionale. Ma anche adesso, in un momento di grave crisi finanziaria, era davvero necessario dar vita a comitati e comitatini, più o meno lottizzati, per proporre riforme costituzionali? Non è sufficiente, per un governo di transizione, preoccuparsi di riformare la grottesca legge elettorale e tentare di risolvere i problemi economici e sociali?
Provoca sussulti rileggere quel testo di Calamandrei del 1947. Spiega, come un buon maestro, spiritoso, tra l’altro, chiaro, le sue idee di Stato e di società, il lavoro, la legalità, i partiti, l’articolo 7, la tutela delle minoranze: «La Costituzione deve essere presbite, deve veder lontano, non essere miope». Dobbiamo fare, disse citando Dante: «come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte». Una Costituzione non deve illuminare la strada soltanto ai presenti ma anche a coloro che vengono dopo, i posteri. Fedeli, infedeli?

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