Una nuova privatizzazione

02 Ago 2013

Stefano Rodotà

In quelle alte sfere, però, oggi il vizio dell’abbandono della retta legalità costituzionale si manifesta al massimo grado con la manipolazione dell’articolo 138, essenziale norma di garanzia, della quale ci si vuole liberare per riscrivere in modo sbrigativo parti della Costituzione. Per fortuna, l’ostruzionismo ha imposto un rinvio a settembre della discussione parlamentare, che non è un prendere tempo, ma offrire opportunità alla riflessione. Un segno di buona salute istituzionale, in tempi così grami.

referendum 12 e 13 giugnoIn altri tempi, nel linguaggio della buona borghesia v’era una espressione – “vivere ai margini della legalità” – che veniva adoperata per segnare una distanza, per delimitare una cerchia di persone che era bene non frequentare. Poi questa cerchia si è allargata, gli attraversamenti dei confini sempre più labili della legalità si sono moltiplicati, e gli inviti a mantenere una certa distanza da talune persone sono stati tacciati di moralismo. Ma questo degrado del costume civile ha finito con il contagiare le stesse istituzioni. Assistiamo sempre più spesso non solo a comportamenti di soggetti pubblici, ma addirittura alla scrittura di leggi che, invece di essere garanzia di legalità, vivono sempre più spesso ai suoi margini.
Gli esempi sono frequenti. Una sola citazione. La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che abolivano le province, suscitando le proteste di chi ha visto in ciò un altro caso di presunto sabotaggio delle riforme da parte dei giudici, la conferma di una politica ormai sotto controllo delle varie magistrature. A questi saccenti critici non è venuto in mente di dare un’occhiata alla sentenza della Corte, dove si diceva chiaramente che le province, poiché sono previste dalla Costituzione, non possono essere cancellate dalla legge ordinaria, ma che questa decisione richiede una legge costituzionale. E, infatti, il governo Letta ha poi deciso di seguire questa strada, ovvia, come sa uno studente del primo anno di Giurisprudenza. Ma, macroscopica sgrammaticatura giuridica a parte, questo episodio, insieme ai tanti altri sui quali è intervenuta la Corte, è rappresentativo del modo in cui governo e Parlamento vivono ormai “ai margini della legalità costituzionale”, considerandola un impaccio del quale liberarsi o un dato di cui si può allegramente non tenere conto.
Nell’ultimo periodo, soprattutto, i giudici della Corte hanno così dovuto non soltanto vigilare su singole violazioni di articoli della Costituzione. Si sono sempre più trovati di fronte alla necessità di ricostituire le basi stesse della legalità costituzionale. Una conferma eloquente è appena venuta dalla sentenza che ha dichiarato illegittima la norma che escludeva dalla rappresentanza in azienda i sindacati che, pur avendo partecipato alle trattative, non hanno poi firmato il contratto. Molte sono le norme costituzionali violate, e la Corte lo mette in evidenza con chiarezza. È la stessa libertà sindacale ad essere negata quando il diritto di un sindacato, sostenuto dal consenso dei lavoratori e che potrebbe addirittura essere il più rappresentativo, è condizionato alla sua accettazione delle proposte dell’azienda. In questo modo si viola l’eguaglianza tra i sindacati che, nella loro funzione di tutela dell’interesse collettivo, “sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, bensì del rapporto con l’azienda”. I diritti, in definitiva, sarebbero riservati solo a quei sindacati che hanno “un atteggiamento consonante con l’impresa”, negando così il diritto al dissenso, perché il sindacato non sarebbe più libero di scegliere le “forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentanti”, con il risultato che verrebbero così cancellati “i valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale”.
Non sono questioni da poco. È in gioco il principio della rappresentanza in azienda, che non è tema rilevante solo per il sindacato, ma riguarda direttamente il diritto del lavoratore di scegliere liberamente il sindacato che ritiene più idoneo a difendere il suo interesse. Si incide sulla distribuzione del potere nelle relazioni industriali, poiché crescerebbe in modo smisurato quello dell’azienda, che potrebbe portare a intese contrattuali accompagnate anche da “un illegittimo accordo ad excludendum” proprio dei sindacati legittimamente dissenzienti.
La vicenda ha origine da un ricorso della Fiom, alla quale la Fiat aveva disconosciuto il diritto a costituire rappresentanze sindacali aziendali per la mancata sottoscrizione del contratto collettivo. Ora questo vincolo tra rappresentanza e firma del contratto è stato cancellato, e il caso specifico suggerisce una considerazione generale. La Fiom ha scelto la via della legalità, affidando alla magistratura la tutela di diritti fondamentali, ottenendo anche dalla Corte di Cassazione una sentenza favorevole. Reagendo alle due sentenze, invece, l’amministratore delegato della Fiat ha fatto ancora una volta ricorso alla minaccia di andar via dall’Italia, che equivale alla pretesa di poter disporre di un diritto davvero asimmetrico, sbilanciato a favore dell’azienda, anzi di un non diritto identificato con le sue decisioni unilaterali. Forse nelle orecchie di Sergio Marchionne riecheggia il vecchio detto “quel che va bene per la General Motors, va bene per gli Stati Uniti d’America”. Ma qui si va ancora più indietro, all’affermazione secondo cui “la democrazia si ferma ai cancelli della fabbrica”. La Corte, dunque, non ha soltanto dato ragione alla Fiom, ma ha ricostituito la base stessa della legalità democratica e costituzionale in azienda.
Ribadito questo essenziale presupposto, la Corte non si è impadronita del ruolo proprio della politica e del Parlamento, sollecitato ad intervenire per disegnare un quadro di regole adeguato alla realtà mutata delle relazioni in azienda, approvando quella legge sulla rappresentanza sindacale da tante parti invocata, entrata anche in qualche programma elettorale. E che è essenziale per una effettiva tutela dei diritti dei lavoratori. È un tema che non può essere rinviato, e che porta con sé anche la necessità di eliminare l’articolo 8 del decreto 138 del 2011, che prevede la possibilità di stipulare, contratti collettivi o intese “in deroga alle leggi”. L’intero diritto del lavoro, come strumento volto a garantire l’equilibrio tra potere imprenditoriale e potere dei lavoratori, si dissolve. Una nuova privatizzazione. Non si negozia più all’ombra proiettata dalla garanzia della legge, ma soggetti a un potere imprenditoriale che, in tempi di drammatica crisi dell’occupazione, è stato enormemente rafforzato, in netto contrasto con l’articolo 1 della Costituzione, che fonda Repubblica e democrazia appunto nel lavoro.
Ma il vizio di violare la legalità costituzionale lo ritroviamo anche altrove. L’ultima notizia arriva dalla Regione Campania, dove è stata presentata una proposta di legge volta nella sostanza a bloccare il processo di ripubblicizzazione dell’acqua, che proprio a Napoli aveva avuto la sua più significativa manifestazione. Anche in questa materia è già intervenuta la Corte costituzionale, ribadendo con chiarezza l’obbligo di rispettare il risultato referendario contro la privatizzazione del servizio idrico. È pure questo un segno dei tempi, visto che nel governo e nella sua maggioranza sono numerosi i nemici dell’acqua pubblica?
In quelle alte sfere, però, oggi il vizio dell’abbandono della retta legalità costituzionale si manifesta al massimo grado con la manipolazione dell’articolo 138, essenziale norma di garanzia, della quale ci si vuole liberare per riscrivere in modo sbrigativo parti della Costituzione. Per fortuna, l’ostruzionismo ha imposto un rinvio a settembre della discussione parlamentare, che non è un prendere tempo, ma offrire opportunità alla riflessione. Un segno di buona salute istituzionale, in tempi così grami.

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