Il solito copione: capri espiatori nessun colpevole

17 Lug 2013

il gioco delle parti ha dato vita ad un copione vecchio e usurato, recitato sul palcoscenico del Parlamento da un ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che sembrava la copia esatta di tanti suoi predecessori, costretti, nel corso dei decenni, a trovare una «pezza» – anche a costo di sfiorare l’illogico – ogni volta che accadeva l’irreparabile. Alfano ha letto, in sostanza, la relazione approntata dal Capo della Polizia, Alessandro Pansa, quasi affidando proprio a quel testo una sorta di «certificazione» sul fatto che «l’affaire Shalabayeva» si fosse svolto a «sua insaputa». E per dare maggior peso alla relazione Pansa, con una «procedura di trasparenza» abbastanza inusuale, ha comunicato che il documento potrà essere letto da tutti sul sito del ministero.
Alfano ha ribadito che tutto è avvenuto all’insaputa sua e dell’intero governo. Soprattutto la parte dell’operazione riguardante l’espulsione della signora Shalabayeva e della figlioletta, dopo la fallita cattura del marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, che, però, dice il ministro, per la nostra polizia era solo un pericoloso latitante e terrorista, perché così era stato assicurato dal console kazako Adrian Yelemessov.
Ora, è comprensibile – anche se non giustificabile – che un’indagine amministrativa debba muoversi cercando di procurare il danno minore – ce lo insegnano decine di commissioni inutili su ogni genere di disastro istituzionale -, ma appare eccessivo che si ammetta placidamente che la nostra polizia (Interpol compresa) non sappia chi e quanti siano gli oppositori stranieri presenti a vario titolo nel nostro Paese. Forse sarebbe stata opportuna magari una telefonata ai nostri servizi o anche a qualche servizio amico, per esempio quello inglese, Paese dove la signora Alma Shalabayeva era stata ospitata prima di giungere a Roma. Ma la ragion politica (in questo caso la difesa della stabilità del governo) deve sempre prevalere e quindi passi che accettiamo di fare la figura dei poliziotti delle barzellette. L’importante è difendere la propria (del ministro e del governo) estraneità, tuonare e promettere che «tante teste cadranno» anche se poi non succederà.
La vicenda, invece, avrebbe meritato ben altro svolgimento. L’ammissione del ministro («non sapevo nulla»), sorretta dall’analisi del prefetto Pansa, è istituzionalmente gravissima. L’indagine amministrativa sembra aver dimostrato che, dopo l’irruzione di uno squadrone di poliziotti a Casal Palocco e la fuga del latitante, si è inceppato il meccanismo della comunicazione tra i burocrati del Dipartimento e il gabinetto del ministro. In sostanza, dice Alfano, la vicenda fu trattata come una normale espulsione e queste pratiche, per prassi, non vengono sottoposte all’autorità politica.
Forse ci saremmo aspettati da Angelino Alfano, oltre alla minuziosa, burocratica ricostruzione, anche un qualche cenno sul danno prodotto all’immagine dell’Italia, additata pubblicamente come una «piccola» democrazia che si piega alle richieste del dittatore Nazarbayev. E forse, perché no?, non sarebbe stata inopportuna una qualche parola di umana «pietas» (presumibile per un cattolico come Alfano), a parziale indennizzo del dolore provocato ad Alma e alla sua bambina. Ma la politica concede poco spazio alla considerazione per il prossimo.
Cosa accadrà adesso? Il ministro una testa l’ha portata: quella del prefetto Procaccini, suo capo di gabinetto, che si dimette senza nessuna spiegazione ufficiale e senza che il governo abbia chiarito quale sia la sua «colpa». Poi ci sarà «l’avvicendamento» (a quanti avvicendamenti abbiamo assistito negli anni!) del prefetto Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza, prossimo ormai alla pensione. Insomma, non accadrà praticamente nulla. Anzi no, Alfano ha preannunciato, col tono del preside burbero ma non troppo, la formazione di una commissione che riorganizzi interamente il Dipartimento e in particolare la direzione generale degli uffici per l’immigrazione. Questo «studio» dovrà far sì che «non accada mai più che un ministro, un intero governo vengano tenuti all’oscuro» su iniziative così delicate.
Sembra di assistere ai titoli di coda di un film visto tante volte. Sempre lo stesso: prima il danno, poi il sacrificio di un capro espiatorio dato in pasto all’opinione pubblica ma senza infierire e, infine, l’immancabile commissione riparatrice. L’aereo di Ustica venne seppellito da un simile organismo che dava fiato alla tesi dell’incidente. Per non parlare delle decine di scandali istituzionali regolarmente insabbiati sotto l’autorevole parere di una relazione parlamentare. Poche storie scandalose, in Italia, si sono chiuse con la condanna dei responsabili. Si sa sempre chi esegue, ma non chi dà l’ordine. Come a Genova, per la Diaz e Bolzaneto.

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