Pd: la tattica della dilazione

15 Lug 2013

Un congresso finto servirebbe a poco. Bisogna ripartire con buone idee e un buon leader. Altrimenti, la crisi sarebbe inarrestabile. Con effetti pesanti non solo a sinistra, ma anche per la nostra democrazia.

C’è un’agenda di problemi sempre più gravosi per il governo: dai contrasti su Imu e Iva e, in generale, sulle questioni economiche, allo scandalo per il sequestro della moglie del dissidente kazako, con la posizione sempre più imbarazzante del vice premier e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per il quale, a questo punto, le dimissioni sarebbero la più onorevole via d’uscita… Lo spirito di sopportazione reciproco, all’interno dell’anomala maggioranza, è ormai ridotto al lumicino. Ma è martedì 30 luglio il giorno del giudizio, nell’aula della Corte di Cassazione. Un’eventuale condanna (con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici da scontare) metterebbe Berlusconi fuori dal gioco politico. Si vivono, dunque, ore febbrili dalla parti del Cavaliere, valutando anche se non sia più opportuno rinunciare alla prescrizione, così da far prendere alla sentenza una via più lenta, con lo slittamento almeno a fine anno. Berlusconi ostenta sicurezza, assume, all’apparenza, toni pacati. Ma nel Pdl domina la paura perché con la caduta del leader cadrebbe anche la sua creatura. Il solito Brunetta proclama: “Se lo condannano, faremo cadere noi il governo”.

E’ comprensibile l’agitazione dei berlusconiani. Si parli del Pdl o di Forza Italia, che dovrebbe rinascere in autunno, si tratta sempre di un partito personale, inestricabile dalla figura di Berlusconi. I guai giudiziari del leader diventano quindi i guai politici del partito. Ma è paradossale che diventino anche il primo problema del Pd. E, soprattutto, che i Democratici arrivino a questa scadenza in stato di assoluta confusione. Non ci volevano particolari qualità divinatorie per sapere che una condanna definitiva di Berlusconi avrebbe provocato il terremoto. L’epilogo era atteso per fine anno, la celerità della Corte, per evitare la prescrizione, ha modificato il quadro? Siamo seri, non è qualche mese in meno a cambiare la sostanza dei problemi. Questo governo è nato da un’emergenza nazionale, mancando in Parlamento qualsiasi altra soluzione praticabile. Addossare  le colpe al Pd non sarebbe giusto. Ma, trattandosi di un governo di “scopo”, nato contro lo stesso mandato elettorale del Pd, bisognava fissare limiti precisi e obiettivi altrettanto chiari: due o tre cose essenziali, da fare al più presto, senza equivoci. Un orizzonte ristretto, ma carico di significato: lo stimolo alla crescita economica e una buona legge elettorale, capace di assicurare effettiva agibilità democratica. Invece, stiamo vedendo la tattica della dilazione, il continuo rinvio delle scelte. In economia e anche per quanto riguarda il sistema elettorale. In questo caso, grazie al “pasticciaccio” (usiamo un eufemismo) della Commissione bilaterale per le riforme istituzionali. La legge elettorale finisce così per diventare un’altra arma di ricatto. Uno strumento per favorire la paralisi e il gioco dei veti incrociati: ”La situazione precipita e sarebbe meglio andare alla urne, ma come si fa a votare finchè c’è il Porcellum…?”

La governabilità, intesa in questi termini, minaccia di annientare l’identità del Pd. Ma, a guardar bene, qual è questa identità? Oggi, il Pd è una zattera che sbatte di qua e di là, senza trovare un approdo. Da tempo, sembra che questo partito abbia scelto di mandare al macero le originarie ambizioni. Non ha vinto le elezioni politiche, malgrado tutte le previsioni e le attese, affrontando la consultazione elettorale con sufficienza e fiacchezza. Ha perduto il dopo-elezioni, non riuscendo a imporre i suoi candidati alla presidenza della Repubblica e dovendo accettare in seguito un governo col partito di Berlusconi, l’avversario di sempre. E’ vero: ha vinto le amministrative perché ha ancora un radicamento sul territorio e apprezzati esponenti locali. Ma così può solo resistere, non avanzare. Alla fine, dà sempre la sensazione di muoversi con riserve mentali e scarsa convinzione. Certo, è la sola forza in campo che non sia un partito personale. Qualità, senza alcun dubbio, apprezzabile. Ma a condizione che non si tratti, come è avvenuto nelle ultime vicende, di una “ditta” di organizzatori senza talento, priva di una strategia, dove fanno la voce grossa correnti personali acchiappa posti. La condizione per curare la malattia del Pd è che chi ora aspira a guidarlo si metta in campo, da qui al congresso, con principi guida e riforme concrete, senza reticenze e accordi sottobanco. La richiesta vale per Renzi come per i suoi competitori. Un congresso finto servirebbe a poco. Bisogna ripartire con buone idee e un buon leader. Altrimenti, la crisi sarebbe inarrestabile. Con effetti pesanti non solo a sinistra, ma anche per la nostra democrazia.

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