La Consulta boccia Berlusconi

20 Giu 2013

Liana Milella

La Corte: no al legittimo impedimento, sulla condanna nel processo Mediaset ora deciderà la Cassazione. Le minacce del Pdl.

FINISCE nell’unico modo in cui poteva finire. Alla Corte costituzionale Berlusconi perde la partita del legittimo impedimento per il processo Mediaset. Il conflitto di attribuzione sollevato nel 2011 da Palazzo Chigi contro i giudici di Milano per una contestata udienza di un anno prima viene bocciato, proprio come lo stesso Berlusconi temeva che potesse avvenire. Due ore di discussione, un voto che contrappone 11 giudici ad altri 4 favorevoli alla tesi di un premier che può convocare il Consiglio dei ministri come e quando vuole. PERCHÉ le esigenze di governo dovrebbero sempre vincere su quelle dei processi. Ma la tesi risulta nettamente perdente. La Corte lo spiega in una lunga nota che, poco prima delle 19, irrompe nella vita politica del Paese.
Gli occhi di tutti si appuntano su Berlusconi, ma la sua reazione “salva” il governo: «Questo tentativo di eliminarmi dalla vita politica che dura da vent’anni non potrà in nessun modo indebolire o fiaccare il mio impegno politico per un’Italia più giusta e più libera ».  È il “salvacondotto” per Letta. Passa mezz’ora ed ecco l’altra campana del segretario Pd Epifani che suona all’unisono: «Le sentenze si applicano e si rispettano. Non ho motivo di ritenere che possano avere effetti su un governo ». Prima, durante e dopo si scatena tutto il mondo berlusconiano per insultare la Corte, i giudici e questa sentenza «politica», tant’è che è costretto a intervenire per difenderla il presidente dell’Anm Sabelli: «È inammissibile che alla Consulta si attribuiscano logiche di natura politica». A sera arriva il commento del Quiruinale che esprime la sua moderata soddisfazione per la mancata crisi e per la prudenza dell’ex premier.
Questa è la minaccia che, pesantissima, preme sui giudici. I quali si blindano come mai è avvenuto in passato. Cellulari spenti: i loro, delle segretarie, degli assistenti. Filtra la minaccia di abbandonare il Parlamento di Gasparri considerata, per la coincidenza dell’ora, «una pressione insopportabile ». Che però non lascia tracce in una decisione che, negli ambienti della Corte, viene definita come «tecnicamente e giuridicamente obbligata». Per un motivo assai semplice. Nel 2011, con la sentenza numero 23 che bocciò il famoso lodo Vietti, un legittimo impedimento temporaneo per il premier approvato per far fronte alla caduta del lodo Alfano anch’esso falcidiato dalla Consulta, il giudice Sabino Cassese — relatore pure ieri sul caso Mediaset — mise dei paletti ferrei al rapporto tra attività di governo e attività giudiziaria. Spiegò che, nel corso dei processi, l’una non poteva travalicare sull’altra, che il «bilanciamento degli interessi» è indispensabile. Una tesi già contenuta in un’altra sentenza storica, quella sulla vicenda Previti versus il gip di Milano Rossatto. Come Repubblica aveva già scritto il 29 maggio, da quella sentenza era impossibile prescindere e tornare indietro. Lo conferma adesso la nota dettagliata che motiva la scelta della Corte: «In base al principio di leale collaborazione, e fermo rimanendo che il giudice, nel rispetto del principio della separazione dei poteri, non può invadere la sfera di competenza riservata al governo, spettava all’autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto a partecipare all’udienza del primo marzo 2010 l’impegno dell’imputato premier di presiedere una riunione del consiglio del ministri da lui convocata nel giorno da lui stesso in precedenza indicato come utile per partecipare all’udienza».
Qui sta il punto. Assai semplice. Desta solo molta meraviglia che la Corte abbia impiegato due anni per decidere. Quel primo marzo venne fissata un’udienza del processo Mediaset, concordata con la difesa, dopo rinvii per altri legittimi impedimenti. D’improvviso ecco una nuova riunione dell’esecutivo per approvare il ddl sull’anti- corruzione che poi aspetterà altri due mesi per passare alle Camere. Nulla di urgente quindi. Come non bastasse — e qui sta il vero punto debole del conflitto di attribuzione sollevato da palazzo Chigi — Berlusconi «non fornisce alcuna indicazione, diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti, né sulla necessaria concomitanza, né sulla “non rinviabilità” dell’impegno, né su una data alternativa per fornire un nuovo calendario». Stanno qui, in questa pretesa del tutto assoluta di Berlusconi, senza motivazioni né scuse, le ragioni del fallimento del conflitto. Dicono alla Corte che, tutto sommato, è stato solo un errore delle difese. Potevano motivare meglio quel legittimo impedimento e forse ieri non avrebbero perso.

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