Convergenza bipartisan rischiosa

07 Giu 2013

Da sempre infatti l’idea di porre a capo dello Stato un “uomo solo al comando”, in quanto legittimato direttamente dal popolo, è nel dna della destra italiana, e le pessime esperienze d’instabilità dei governi a guida prodiana hanno indotto aperture anche all’interno del centrosinistra.

Sarà dunque il presidenzialismo la panacea in grado di sanare il sistema politico italiano da tutti i suoi mali? Alle dichiarazioni del premier Enrico Letta – “mai più un Capo di Stato eletto con le vecchie regole” – ha prontamente plaudito un incredulo Alfano. Da sempre infatti l’idea di porre a capo dello Stato un “uomo solo al comando”, in quanto legittimato direttamente dal popolo, è nel dna della destra italiana, e le pessime esperienze d’instabilità dei governi a guida prodiana hanno indotto aperture anche all’interno del centrosinistra. Dunque la strada delle riforme parrebbe segnata verso uno storico obiettivo: l’investitura elettorale del futuro Capo di Stato, l’abbandono della formula di governo parlamentare a favore di un presidente posto ai vertici dell’esecutivo, magari assistito da un primo ministro di servizio, sul modello francese. Mettiamo per un attimo da parte lo scetticismo che ormai accompagna questi bellicosi proclami di palingenesi costituzionale – la storia della cosiddetta “seconda Repubblica” è disseminata di scheletri di grandi riforme abortite o bocciate dalle urne. Cerchiamo piuttosto di capire le ragioni politiche di questa convergenza bipartisan verso un “presidenzialismo all’amatriciana”, e soprattutto i rischi che essa comporta. Le motivazioni contingenti che spingono il premier Letta a includere queste “grandi riforme” nell’agenda politica sono evidenti. Ancorare la sopravvivenza della propria traballante super-maggioranza a una prospettiva di modifica delle regole del gioco, per giunta gradita ai propri interlocutori del Pdl, equivale ad acquistare una sorta di assicurazione sulla vita, dando fiato all’azione del suo governissimo. Altrettanto chiari i moventi del leader Pdl Berlusconi. Investito del ruolo di “padre nobile” della Patria, impegnato a ridisegnare le istituzioni della Repubblica, il Cavaliere potrebbe esercitare informalmente una pressione verso i soci di maggioranza e i vertici della magistratura, così da conseguire l’agognato salvacondotto giudiziario. Se poi la riforma andasse in porto, il modello di governo risultante sarebbe pienamente coerente con l’impronta personalistica, “proprietaria”, populista della politica che da sempre ne decreta i successi elettorali. Ma il punto è precisamente questo: si possono ragionevolmente affidare i destini della Repubblica a strategie accidentali e di corto respiro di una classe politica ai massimi storici di discredito popolare? Per rendere la politica più “efficiente” nei suoi processi decisionali e rilegittimarla agli occhi dei cittadini non è necessario abbandonare l’attuale forma di governo parlamentare, che anche grazie alla pluralità di autonomi centri di potere ha assicurato – anche nelle fasi più buie della storia della Repubblica – un’ampia salvaguardia delle libertà democratiche. Per conseguire lo stesso risultato sono sufficienti poche e ben note operazioni di manutenzione costituzionale: il dimezzamento del numero di parlamentari, la trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie, l’introduzione della sfiducia costruttiva. Gustavo Zagrebelsky ci insegna che le costituzioni non sono saponette da scegliere al supermercato in base al gusto del momento. Piuttosto, sono abiti che devono adattarsi con delicatezza al “corpo” del paese in cui vengono impiantate, alle sue tradizioni, al suo retaggio. L’Italia conosce una concentrazione proprietaria e un condizionamento politico sui mezzi di comunicazione inconcepibili in qualsiasi altro paese democratico. Soffre una diffusione della corruzione a ogni livello istituzionale superiore a quella di molti paesi in via di sviluppo. Non si è dotata di alcuna regolazione del conflitto di interessi, nonostante le macroscopiche distorsioni dei processi politici causati da interessi imprenditoriali. Ha conosciuto una pacifica inclusione nelle coalizioni governative di forze politiche che non hanno mai ripudiato ideologie fasciste e xenofobe. Siamo consapevoli dei rischi che un “abito” presidenzialista comporterebbe, in un simile contesto, per la qualità della nostra vita democratica?

* L’autore insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione

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