La pietanza delle riforme

15 Mag 2013

Michele Ainis

Noi, però, gradiremmo venire consultati pure dopo. Con un referendum obbligatorio, successivo alla riforma. Giusto per ribadire che la Costituzione italiana è degli italiani, di tutti gli italiani.

Chi forma la riforma? Gira e rigira, stiamo sempre attorno a un palo: le procedure, il metodo, prima ancora del merito. E sulle procedure ciascun partito va a zig zag. Vale per la Convenzione, questa creatura mitologica che dovrà allevare le riforme: emersa (nel documento dei saggi insediati da Napolitano), sommersa (dal ministro Quagliariello), riemersa (per bocca del presidente Letta, dopo il buen retiro di Spineto). E vale, a maggior ragione, per l’intreccio tra riforma costituzionale e legge elettorale. Prima la prima, dice il Pdl. No, assecondiamo anzitutto la seconda, replica il Pd. Un dubbio filosofico che ci ha tormentato già nella legislatura scorsa: è nato prima l’uovo o la gallina? Lasciandoci infine a pancia vuota: senza l’uovo, e senza la gallina.
Ma una pietanza bisognerà pur cucinarla, perché è falso che le riforme non diano da mangiare. Succede viceversa che la crisi economica sia aggravata dalla crisi politica, che quest’ultima abbia ormai messo in crisi le nostre istituzioni, e che perciò dobbiamo prendere la crisi istituzionale per le corna, se vogliamo curare sia l’economia che la politica. Potrà saziarci l’ultimo menu allestito dal presidente del Consiglio? Dipende: dai piatti scelti, ma soprattutto dai loro ingredienti. E questa lezione gastronomica s’applica a tutt’e tre le portate che i cuochi stanno per servirci.
Primo: la legge elettorale. Mettiamola immediatamente in sicurezza, ha stabilito Letta. Con una riformina che intanto ci liberi dalle nefandezze del Porcellum, salvo poi tornarci sopra quando (e se) verrà battezzata la riformona costituzionale. Vivaddio, era ora. Una soluzione di buon senso, che chi scrive predica da tempo. Già, ma come? Con una legge di due righe: il primo rigo abroga il Porcellum, il secondo fa resuscitare il Mattarellum. Magari depurato dal meccanismo infernale dello scorporo, che sottraeva a ogni partito i voti dei candidati vittoriosi nei collegi, e che a suo tempo provocò un’inondazione di liste civetta. O corretto per riequilibrare la rappresentanza femminile, come suggerisce Anna Finocchiaro. Invece Letta propone di segare il premio di maggioranza del Porcellum, lasciandolo — quanto al resto — inalterato. Ma il resto è un proporzionale puro, che ci garantirebbe una governabilità impura. Ed è una lenzuolata di parlamentari nominati, anziché eletti nei collegi.
Secondo: la Convenzione. Risulterebbe dalla somma delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, dunque una Bicamerale sotto falso nome. Per carità, può rivelarsi utile, anche se i precedenti portano un po’ iella. Ma a patto di dotarla di poteri redigenti, altrimenti il Parlamento ne smonterà il lavoro come un Lego. E senza quest’idea bislacca della doppia presidenza: sennò uno frena, l’altro accelera, finiranno per fondere il motore. E il comitato d’esperti che Letta intende istituire? A quanto pare, consiglia la Convenzione, che poi consiglia il Parlamento: un consulto al cubo.
Terzo: gli elettori. Verranno consultati pure loro, e meno male. Con un sondaggio pubblico via web, come d’altronde accade in tutto il mondo. Dall’Islanda (dove la bozza di Costituzione, nel 2011, è stata elaborata in una pagina su Facebook) al Marocco (con una piattaforma informatica cui hanno aderito 150 mila cittadini). Noi, però, gradiremmo venire consultati pure dopo. Con un referendum obbligatorio, successivo alla riforma. Giusto per ribadire che la Costituzione italiana è degli italiani, di tutti gli italiani.

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