Diritto d’Europa: intervista a Stefano Rodotà

18 Apr 2013

Non è la prima volta che intervisto Stefano Rodotà, ma – oggi come allora – rimango colpita dallo stile asciutto di questo distinto signore, lucido, lucidissimo, in tutte le sue affermazioni. Ogni parola è pesata e soppesata, ha un senso e un significato preciso, al quale non si sfugge. È con lui che proviamo a fare il punto sul processo di integrazione europea, su questo contenitore troppo spesso bistrattato e mal tollerato, a volte invocato, ma quasi mai adeguatamente valorizzato, soprattutto sul versante dei diritti. Giurista di fama internazionale, Stefano Rodotà l’Europa la conosce molto bene: ha fatto parte del gruppo sull’etica per le scienze e le nuove tecnologie, è stato presidente dei Garanti dell’Ue e del Comitato scientifico dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali. Ma soprattutto, assieme ai giuristi di altri paesi, è stato uno degli estensori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

Siamo soliti ritenere l’Europa la regione del mondo dove è più elevata la tutela dei diritti. La crisi ha eroso questo primato?

C’è stata un’erosione, è visibile ed è grave. Il quadro istituzionale rimane quello che conosciamo, una sorta di sistema costituzionale europeo all’interno del quale c’è una dichiarazione dei Diritti vincolante. Ma il problema è che, oggi, l’Europa rischia di ridursi al mero governo dell’economia, secondo una sorta di legge naturale del mercato. Non possiamo pensare ad un’Europa più integrata e più ricca omettendo la dimensione dei diritti.

Questa dimensione andrebbe a compensare anche la diffusa disaffezione dei cittadini nei confronti di Bruxelles…

Esattamente. Oggi l’Europa non gode di buona stampa. C’è una drammatica caduta di fiducia nei confronti delle istituzioni europee. Si può recuperare solo mostrando che dall’Unione non vengono esclusivamente diktat di natura economico-finanziaria – che spesso mortificano la stessa vita delle persone – ma c’è un valore aggiunto, rappresentato proprio dai diritti.

Ci faccia un esempio.

Tra poco sarà possibile, per i cittadini italiani, scegliere in quale dei 27 paesi dell’Unione farsi curare. A pagare sarà la ASL locale. Ecco, questo significa che il nostro diritto alla salute verrà rafforzato: potremo recarci nel paese che ci offre maggiori garanzie e una più elevata speranza di vita. Sono aspetti, questi, dei quali non si parla abbastanza, ma che possono permetterci di vedere nell’Unione europea un punto di riferimento.

Non molto tempo fa, l’ex-Presidente dell’Eurogruppo, Claude Junker, ha proposto il salario minimo europeo. Lei preferisce parlare di reddito universale di base. Che differenza c’è, esattamente?

È molto importante che Junker abbia fatto questa affermazione. Salario minimo significa dire che chi lavora non può ricevere una retribuzione inferiore ad una determinata soglia. Con l’idea di reddito, invece, ci si riferisce a tutti, anche a coloro che il lavoro non ce l’hanno. L’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione parla espressamente di “esistenza dignitosa”: l’obiettivo è non solo quello di consentire alle persone di sopravvivere, ma di vivere con dignità.

Di “esistenza libera e dignitosa” parla anche la nostra Costituzione…

Sì, l’articolo 36 della nostra Costituzione è molto chiaro quando fa riferimento ad una “esistenza libera e dignitosa”. Un paese democratico e una politica degna di questo nome devono necessariamente riconoscere un “diritto all’esistenza”.

A suo parere, quali cambiamenti sarebbero necessari nell’architettura istituzionale europea?

Occorre restituire all’Unione democraticità e legittimità. Democraticità significa far sì che non ci siano poteri sottratti ad un reale controllo democratico, quindi – in primo luogo – serve rafforzare ulteriormente il ruolo del Parlamento europeo. In secondo luogo, sarebbe opportuna un’estensione del controllo della Corte di Giustizia su una serie di procedure recentemente messe a punto. Il resto, però, deve farlo la politica, per la costruzione di un vero demos europeo.

La globalizzazione – nella sua accezione economica – è stata a lungo malvista. Ultimamente, invece, si comincia a parlare di globalizzazione dei diritti. È in corso un reale cambiamento di paradigma?

In questi anni abbiamo vissuto la globalizzazione come tendenza esclusivamente economica, una forza lasciata a se stessa, ad una pericolosa autoregolazione. La crisi che stiamo vivendo ne è la prova indiscutibile. Oggi assistiamo ad una dichiarazione continua dei diritti da parte di soggetti molto diversi tra loro: pensiamo ai bramini buddisti in Birmania, alle donne africane, ma anche alle lotte per il lavoro e per l’autodeterminazione della vita. I diritti costituiscono l’unico vero contrappeso alla pericolosa pretesa che sia la sola economia il metro di tutte le cose e che il mercato sia una sorta di legge naturale cui è impossibile sfuggire. È necessaria un’altra logica: senza un rinnovato equilibrio finiremo col perdere non solo diritti, ma anche democrazia.

 

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