Compromesso a-storico: manca una radice comune

12 Apr 2013

L’ottimismo degli sherpa e della schiera di pontieri democratici collide con lo scetticismo manifestato sul punto da storici, politologi e costituzionalisti, ai quali non sfugge il tentativo di decontestualizzare una delle più belle pagine della storia recente per attribuire una parvenza di dignità morale ad un’operazione poco digeribile all’opinione pubblica. Leggi anche l’articolo di Franco Cordero.

Proprio mentre viene data alle stampe una nuova antologia dei più importanti interventi di Enrico Berlinguer (corredata da un’illuminante prefazione di Miguel Gotor), il richiamo del Capo dello Stato all’esperienza del 1976 ed al tentativo di “desistenza” condotto da Democrazia Cristiana e Partito comunista riporta di nuovo la stagione del compromesso storico al centro del dibattito politico. E’ possibile individuare in un nuovo patto di reciproca legittimazione tra le principali forze in campo (patto destinato a risolversi in un’intesa di ampio respiro che ricomprende la scelta del nuovo Presidente della Repubblica, la formazione di un “governo di scopo”, la revisione della seconda parte della Costituzione e la riforma della legge elettorale) la soluzione della crisi istituzionale che al momento paralizza il Paese? Sono davvero maturi i tempi per un nuovo “compromesso storico”, con Berlusconi e Bersani (sempre più isolato nella sua determinazione di  rifiutare la prospettiva di un “patto col diavolo”) nei panni che furono di Moro e Berlinguer?
L’ottimismo degli sherpa berlusconiani e della sempre più nutrita schiera di pontieri democratici collide apertamente con lo scetticismo manifestato sul punto da storici, politologi e costituzionalisti, ai quali non sfugge il (per certi aspetti, maldestro) tentativo di decontestualizzare una delle più belle pagine della storia recente al fine di attribuire una parvenza di dignità morale  ad un’operazione poco digeribile per gran parte dell’opinione pubblica.
Uniti dalla condivisione dell’esperienza dell’Assemblea costituente (e reciprocamente vincolati dal “patto tra uomini liberi” consacrato attraverso l’approvazione della Carta Fondamentale), DC e PCI avviarono un percorso di superamento del sistema di blocchi che caratterizzava il sistema politico dell’Italia del dopoguerra sulla base di una serie di presupposti comuni: l’anima popolare propria di entrambi i partiti; la vocazione solidaristica che animava tanto  il socialismo quanto il cattolicesimo democratico; la concorde percezione della necessità di difendere la democrazia dalla minaccia di un’imminente deriva autoritaria, ispirata ora al modello greco, ora al modello cileno. DC e PCI erano figli della stessa storia, erano il prodotto di una matrice comune che giustificava e sosteneva il compromesso storico: la capacità di rappresentare le due anime della cultura democratica sviluppatasi dopo la lotta di liberazione.
Proprio la mancanza di una matrice culturale comune preclude, per contro, la configurabilità di un analogo compromesso tra il PDL e quel che resta dell’area democratica, protagoniste di uno scontro lungo vent’anni e tutto incentrato sulla figura di Silvio Berlusconi, icona di quella “politica personalizzata” che ha ridotto l’Italia alla triste condizione di democrazia minore. Non una storia comune, ma un conflitto tra storie, consumatosi tra leggi ad personam e cene eleganti, mercati impazziti e faccendieri senza scrupoli, logiche impunitarie e parlamentari precettati per l’occupazione dei palazzi di giustizia. Sulla base di queste riflessioni, ecco che le larghe intese invocate da Napolitano non possono che apparire incompatibili con le posizioni assunte dalla sinistra italiana nel recente passato, assumendo i connotati non di un nuovo compromesso storico, ma di un tanto illogico quanto pericoloso compromesso “a-storico”.
Se si segue questa linea di ragionamento, emerge dunque come l’accordo di ampio respiro prospettato da Berlusconi si esaurisca in un lucido baratto da consumarsi sulle ceneri di quegli stessi principi della Carta Fondamentale che tante volte ne hanno limitato le ambizioni: la fiducia ad un esecutivo di corto respiro – destinato per forza di cose a sgretolarsi tra le mille turbolenze di una legislatura di transizione – in cambio del tanto agognato salvacondotto, e della designazione di un Capo dello Stato “non ostile” alla futura approvazione di altre norme su misura. Una prospettiva che le forze progressiste sono oggi chiamate a scongiurare, sia per fedeltà ad una storia che non merita di essere sacrificata sull’altare del potere, sia per banale istinto di sopravvivenza.
Una prospettiva da scongiurare, procedendo alla nomina di un Presidente della Repubblica qualificabile – più che come figura “ampiamente condivisa” – come un autentico guardiano della Costituzione. Un guardiano della Costituzione capace di tutelare l’integrità delle istituzioni dinanzi ai rigurgiti reazionari che la crisi politica in atto rischia di produrre; un guardiano della Costituzione, in grado di difenderne i principi dalle mille insidie che si celano nelle pieghe del compromesso “a-storico”.

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