Stagione costituente? No grazie

12 Mar 2013

L’uragano che il 24/25 febbraio ha investito il sistema politico-istituzionale ha visto riproporre da qualche consumato uomo politico la legislatura che si sta aprendo come “stagione costituente”. C’è da restare trasecolati: partiti che sono stati incapaci di riformare alcunché con leggi ordinarie dovrebbero proporsi addirittura di cambiare la Costituzione.

L’uragano che il 24/25 febbraio ha investito il sistema politico-istituzionale ha visto riproporre da qualche consumato uomo politico la legislatura che si sta aprendo come “stagione costituente”. C’è da restare trasecolati: partiti che sono stati incapaci di riformare alcunché con leggi ordinarie dovrebbero proporsi addirittura di cambiare la Costituzione. Perché di questo si tratta: l’evocazione del potere costituente non può incontrare limiti neppure nei principi fondamentali e nei diritti contenuti nella prima parte della Costituzione. Può una politica debole e sull’orlo del collasso prendere una decisione così forte? Evidentemente no. Ma soprattutto è veramente necessaria una nuova Costituzione? In realtà gli esponenti politici di cui sopra ripetono lo stesso stanco ritornello da almeno cinque legislature. Se in questo Paese non si fanno le riforme, la colpa non è di una politica incapace, personalistica, lontana dalle esigenze e dalle aspettative sociali, ma di una Costituzione arcaica. Ci vuole poco a contestare un’opinione, che costituisce un colossale alibi per chi non ha saputo governare il Paese. La nostra Costituzione ha un impianto generale che regge benissimo e ha saputo sfidare i cambiamenti del sistema politico che si sono verificati negli ultimi venti anni e quelli che si preanunciano. Di più: la Costituzione è stata un baluardo contro le pulsioni populistiche e antidemocratiche che propugnavano un potere politico libero da vincoli e da controlli. E quindi attaccavano frontalmente i poteri di garanzia, dal Capo dello Stato alla Corte Costituzionale, e lo stesso ruolo legislativo e di controllo del Parlamento, cioè dell’organo eletto dal popolo. Fino ad inventare la clamorosa bugia che l’Italia sarebbe l’unico Paese democratico nel quale il Governo non può fare decreti legge, quando è vero esattamente il contrario: il decreto legge esiste solo in Italia e in Spagna e gli ultimi governi ne hanno fatto un abuso estremo spossessando di fatto il Parlamento di buona parte della potestà legislativa. Ai politici smemorati va ricordato che il valore della Costituzione è stato ribadito dal corpo elettorale nel referendum del 25/26 giugno 2006, quando il 61,3% dei votanti bocciò il progetto approvato dalla maggioranza parlamentare che modificava i due terzi della seconda parte della Costituzione.

Ma cosa dovrebbe fare il novello potere costituente? Se ne è avuto un assaggio nelle proposte che nell’ultima legislatura puntavano ad eliminare il lavoro come fattore fondativo della Repubblica e a travolgere i limiti all’iniziativa economica privata (l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana). E questo in un Paese con un livello crescente di disoccupazione e con il record di morti sul lavoro tra gli Stati democratici più avanzati. Si parla poi da anni di presidenzialismo, ma non di quello vero, vigente negli Stati Uniti con i suoi forti equilibri costituzionali fra i poteri, ma di quello alla francese nettamente squilibrato a vantaggio del Presidente eletto dal popolo. Come se il problema di fondo che abbiamo in Italia fosse quello di dare più potere ad una persona e non di rinnovare la rappresentanza politica in modo da renderla più adeguata e più responsabile nei confronti dei cittadini. E trascurando che l’elezione popolare del Presidente della Repubblica lo trascinerebbe nella lotta politica e eliminerebbe quel fondamentale ruolo neutrale e di garanzia che è stato decisivo negli ultimi venti anni di bipolarismo muscolare.

Cosa ci vuole allora? Una stagione non costituente, ma costituzionale. Nella quale siano valorizzati e si dia piena attuazione ai programmi contenuti nella Costituzione in materia di diritto al lavoro, tutela ambientale, democraticità interna dei partiti, etica nell’esercizio di cariche pubbliche, pluralismo dell’informazione, valorizzazione della ricerca e diritto allo studio. E nel contempo si provveda ad aggiornare il testo con revisioni specifiche volte a garantire un migliore funzionamento sia del Governo sia del Parlamento. Nell’immediato è una la revisione che urge di fronte alla prospettiva di elezioni a non lunga scadenza: superare il bicameralismo paritario dando vita ad un Senato delle Regioni titolare di competenze distinte da quelle della Camera dei deputati, alla quale sola rimarrebbe il potere di votare la fiducia e la sfiducia al Governo. E, se si vuole, ridurre il numero dei parlamentari. Tutto il resto si può fare con leggi ordinarie: un nuovo sistema elettorale, la riduzione dei costi della politica, la regolamentazione dei partiti, misure più severe sulla corruzione e sul conflitto di interessi, provvedimenti urgenti per il lavoro, il finanziamento dell’istruzione e della ricerca. Questi sono i terreni sui quali la politica deve dimostrare di saper cambiare e ritrovare credibilità.

* Mauro Volpi è Professore Ordinario Diritto costituzionale Università di Perugia e socio di LeG

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