Le occasioni perdute e il nuovo modello Sicilia

02 Mar 2013

Capirlo, questo il problema. Mi muoverei da Moro che poco prima di morire scriveva a Zaccagnini, quasi ponendosi come altre volte il perché del terrorismo: «Abbiamo detto sempre che dovevamo cambiare, ma non abbiamo mai cambiato nulla».

Capirlo, questo il problema. Mi muoverei da Moro che poco prima di morire scriveva a Zaccagnini, quasi ponendosi come altre volte il perché del terrorismo: «Abbiamo detto sempre che dovevamo cambiare, ma non abbiamo mai cambiato nulla». Come se si facesse carico delle motivazioni tragiche del terrorismo e l’interrogare (l’interrogarsi) è tragico anch’esso: la risposta sarà la morte. Che all’estero dicano che hanno vinto i clown va considerato con opportune distinzioni. Certo, Berlusconi, come diceva Gobetti per Mussolini, è una sorta di autobiografia del paese o dell’anti paese, che è insieme anti costituzione, anti democrazia, anti cittadinanza. Ma, ce lo spiegava Fellini: essere clown è una cosa tremendamente seria. Per questo non si addice a lui. Dirlo in modo dispregiativo dei Cinque stelle è assolutamente improprio. La politica recitata in quel modo è stata funzionale ad una possibile trasmissione, forse l’unica possibile, di un messaggio di dura rivolta. Una collera che, adottando i sapienti modi del classico e modernissimo «ridendo castigat mores», disvela malesseri antichi, sottovalutati, anche demonizzati.
Come a Gargonza, dove l’identificazione dei processi di democrazia solo con la logica degli apparati discendeva dalla versione leninista del dalemismo. Su “Le Monde” un cittadino francese, scrive, utilizzando un vecchio adagio, che la rivolta in Italia è stata motivata da una situazione nella quale 100 ladri erano fronteggiati da un solo gendarme; questa volta invece c’è stata la riscossa del gendarme: il popolo che lo ha moltiplicato per infinite volte.
Che questo popolo agisca per slogan è conseguente: il carico di malessere incombe, occupa, copre, non si camuffa tra le trine e i merletti di parole laureate. Si “parva licet componere magnis”, se possiamo paragonare queste nostre storie, che poi tanto piccole non sono, ad eventi di significato epocale, possiamo addirittura andare paradossalmente indietro al 1789 francese: la pallacorda, tumulti, la Bastiglia. Alla corte, che a Versailles pasteggia a champagne, giungono ovattati sussurri e grida. Ed erano invece rivoluzione e ghigliottine. Cambiava la storia del mondo. Come nell’ “Autunno del patriarca” gli uccelli si sarebbero cibati del cuore del potere.
Certo, i paragoni sono quasi sempre arbitrari e quindi poco proponibili. Comunque nemmeno alla Bastiglia la rivolta era accompagnata da un ragionare soft. Dice Simone Weil delle difficoltà ad esprimersi in parole coe-renti, che «questo è tanto più inevitabile quando, chi ha più spesso occasione di sentire che gli viene fatto il male, è proprio chi è meno capace di parlare».
Anche da noi questa è una rivolta, comunque la si voglia chiamare. E’ stato detto che le rivoluzioni piccole o grandi, di breve momento o epocali, non sono mai state pranzo di gala… non hanno odorato di gelsomino… e la nostra odorerà, sia chiaro…Contribuirà ad abbattere intanto molti birilli nell’improprio bowling regionale.
Non sono bastati alla Sicilia momenti sinceri, rischiosi, tragici di cose nuove sempre dimenticate in un oblio rivestito di celebrazioni e del salmodiare rituale di professionali prefiche. Ci siamo ammalati di recitazioni sul dover essere invece.
Dovevamo cambiare con lo statuto speciale, lontano dallo spirito della Costituzione invece non eravamo riusciti a liberarci da pratiche di violenza antiche, quelle di una condizione mafiosa che aveva sempre abitato regione e istituzioni. Con le prassi, che aveva favorito e consentito per decenni, aveva moltiplicato il degrado ed era stato il riferimento dell’antiregionalismo del paese. Dice Marcello Sorgi, riprendendo nel suo “Le sconfitte non contano” ad esempio una antica inchiesta dell’Espresso che si riproponeva quasi un secolo dopo di rivisitare le storie, le analisi, i percorsi di Franchetti e Sonnino: «Le istituzioni che presiedono alla vita sociale…sono essenzialmente due: la mafia e il monte dei pegni, che funzionano rispettivamente da governo e da banca centrale». Gli esempi potrebbero essere tanti. Danilo Dolci gridava: chi non garantisce il lavoro secondo lo spirito della Costituzione è un assassino. Adesso si continua a non garantirlo, ma utilizzando la formazione, per elargizioni, anche clientelari, di precario sotto salario. I gestori del futuro di intere generazioni fungono da saprofiti che invadono organismi morti, ragazzi a perdere.
Possiamo dire infine che la vittoria alle regionali accadde per iniziativa non di apparati litigiosi ed inconcludenti, capaci di crescere nella latitanza della politica, ma per sussulti e testimonianze altre: un mondo esterno più credibile, più idoneo a metterci la faccia. E quella vittoria con la libertà di movimento, di ribaltamenti, senza il balbettio di tanti che «si sarebbero mossi ma non hanno quasi mai potuto», che sta cominciando a sperimentare, sembra poter diventare un modello di confronto con i vincitori a Cinque stelle, per valorizzarne, in termini di cambiamento, la molteplicità delle sofferenze, dei propositi che esprimono, per, finalmente, rendere possibile una nuova geografia del vissuto. Che duri.

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