Per il Quirinale una scelta fuori dall’agone politico

28 Feb 2013

Probabilmente, i numeri dei Grandi elettori del Presidente (Parlamentari e delegazioni regionali) consentirebbero di raggiungere su un candidato “tradizionale” una maggioranza altrettanto tradizionale. Ma le forze politiche mostrerebbero, in tal caso, di non aver capito nulla della lezione del 24-25 febbraio.

Con il voto “grillino”, al di là dello sgradevole stile comiziesco del leader, bisogna fare i conti. Ciò è vero non solo per ragioni numeriche, l’impossibilità di costruire al Senato una maggioranza politica basata sui partiti tradizionali, ma per un dato di fondo: l’entità del consenso al Movimento 5 stelle corrisponde a un sentire diffuso, le indagini sulla scarsissima fiducia del Paese non solo nei partiti, ma addirittura nelle istituzioni pubbliche mostrano percentuali impressionanti (da prefisso telefonico, come si usa dire). “Una democrazia non può stare in piedi”, scrive Enzo Mauro su Repubblica del 27 febbraio, se i cittadini non ci credono.
Nel porsi il problema della costruzione di un governo vengono perciò formulate, da varie parti, proposte di immediate riforme politico-istituzionali e si auspica che esse abbiano assoluta priorità. Tutto giusto, ma non si devono sottovalutare le difficoltà: la riduzione del numero dei Parlamentari e l’abolizione delle province costituiscono modifiche costituzionali, per avere una nuova legge elettorale non basta cancellare il Porcellum ma occorre un difficile consenso sulle alternative (e, se si trattasse di Collegi uninominali come molti di noi auspicano, ciò richiede poi di disegnarli sul territorio). I tempi non possono essere quindi brevissimi, e anche se le cose procedessero nel modo migliore è impossibile sperare in un immediato impatto positivo sull’opinione pubblica.
Vi è però anche, imminente, un momento di grande rilievo istituzionale dove sarà netto, chiaramente visibile e soprattutto immediatamente operativo il risultato della scelta tra la continuità -da un lato- con l’attuale gestione politico-partitica, ovvero -dall’altro- un salto di qualità verso un diverso peso della società civile nella realtà istituzionale del Paese. Si tratta dell’elezione del Presidente della Repubblica, funzione alla quale (Art. 84 della Costituzione) “può essere eletto ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni di età e goda dei diritti civili e politici”.
Altri Paesi hanno più volte scelto, per incarichi di questo tipo, personalità culturalmente e professionalmente autorevoli non provenienti dall’agone politico; in Italia invece, nonostante l’apertura suggerita dalla formulazione citata, sono sempre stati eletti uomini dei partiti, con la sola (parziale) eccezione del primo Presidente, Luigi Einaudi.
Il distacco di cui si sopra si è detto induce a proclamare l’esigenza di rompere con questa prassi: se non ora, quando? Le competenze disponibili non mancano. Vi sono nel Paese forze intellettuali e civili che si sono impegnate in movimenti e associazioni “politici”, nel senso alto del termine, al di fuori degli schemi partitici e senza cadere in localismi o settarismi: vi sono state mobilitazioni a difesa dei valori costituzionali e dei diritti di cittadinanza, contro la criminalità organizzata e per la tutela del paesaggio, recentemente – con successo – per la promozione di Referendum a difesa dei beni comuni. Sarebbe criticabile affidare la massima responsabilità istituzionale a pensatori astratti; siamo invece nella condizione di poter avere persone che hanno già esperienza di qualificate azioni svolte per la collettività, in forme diverse da quelle che oggi il Paese contesta.
Probabilmente, i numeri dei Grandi elettori del Presidente (Parlamentari e delegazioni regionali) consentirebbero di raggiungere su un candidato “tradizionale” una maggioranza altrettanto tradizionale. Ma le forze politiche mostrerebbero, in tal caso, di non aver capito nulla della lezione del 24-25 febbraio.
Al di là di questo elemento strategico, sul piano tattico va inoltre osservato che nessun terreno quanto questo è valido al fine di mettere alla prova gli eletti del Movimento 5 stelle. Essi hanno detto “tutti a casa”, e vi è l’occasione di mostrare che ciò si può fare al massimo vertice. Per di più, mentre altre “offerte” sono poco attraenti perché obbligate dai numeri, qui si tratterebbe di una rinuncia vera a un risultato tecnicamente possibile.
Se una svolta di questo tipo vi fosse, forse potremmo cominciare tutti a riprendere le nostre speranze civili.

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