Tre grandi Minoranze impotenti

27 Feb 2013

Michele Ainis

Sui cieli della Repubblica italiana s’addensa un uragano. Di più: una tempesta perfetta, quella che non ti lascia scampo. Stallo politico, con tre grandi minoranze (Pd, Pdl, M5S) che parrebbero impotenti a generare qualsiasi maggioranza. Stallo istituzionale, senza né un governo né un capo dello Stato nella pienezza dei poteri, mentre dei loro eredi fin qui non s’intravede neanche l’ombra. Stallo democratico, perché avremmo urgenza di riannodare il filo tra popolo e Palazzo, e invece la paralisi rischia di reciderlo del tutto. Insomma una situazione di blocco, dove però mancano i poteri di sblocco.
Nel frattempo va in scena una litania di paradossi. Il vincitore (ossia il Partito democratico) coincide in realtà con lo sconfitto. Le tre liste nuove di zecca (Scelta civica di Monti, Fare di Giannino e Rivoluzione civile di Ingroia), allestite in fretta e furia alla vigilia di queste ultime elezioni, finiscono come scarpe vecchie nel cestino dei rifiuti elettorali. Mentre il Porcellum, concepito per assicurare la governabilità — e sia pure a scapito della rappresentatività del Parlamento — ci lascia sgovernati.
Ecco, la legge elettorale. Per tutto il 2012 Pdl e Pd hanno imbastito il gioco del cerino, promettendo agli italiani di cambiarla ma intanto sollevando ostacoli e pretesti pur di mantenerla. Perché sotto sotto pensavano di cavarne un utile, invece intascano un risultato inutile. Anzi dannoso, e non soltanto in vista della formazione del governo. Quale legittimazione avranno le prossime assemblee legislative, ancora una volta nominate anziché elette? Quale consenso potrà mai circondarle, quando un elettore su 4 ha disertato l’appuntamento con le urne (record negativo della storia repubblicana), quando le schede bianche e nulle sono state ben oltre 2 milioni? E con quale autorità il Partito democratico governerà la Camera, se al suo 54% dei seggi corrisponde meno del 30% dei suffragi?
Il fatto è che le leggi elettorali sono come un abito di sartoria: conta la stoffa, ma la misura dipende dal corpo che dovrà indossarlo, non dall’abilità del sarto. Difatti il proporzionale puro ha ben vestito il sistema multipolare operante durante i 45 anni della prima Repubblica. Mentre il Porcellum calzava indosso a un corpo politico bipolare, come quello espresso dalla società italiana nei vent’anni della Seconda Repubblica. In quella condizione, il premione di maggioranza si traduceva in un premietto, giacché ogni coalizione viaggiava attorno al 40% dei consensi. Ora però siamo cascati mani e piedi in un sistema tripolare, con tre forze politiche più o meno equipollenti. Da qui la distorsione, ma da qui pure lo stallo. Perché adesso servirebbe il doppio turno, che invece non c’è. E perché la logica dei sistemi tripolari imporrebbe un accordo di governo fra due poli a scapito del terzo, o al limite una grande coalizione. Nel nostro caso, viceversa, a ciascuno prende l’orticaria solo a sentir nominare l’altro.
In astratto una soluzione ci sarebbe: nuove elezioni. Dopotutto nella primavera scorsa i greci hanno votato per due volte in un mese, tirandosi fuori dalle secche. Ma in Italia questo rimedio è impraticabile, perché abbiamo un presidente della Repubblica in scadenza. Art. 88 della Costituzione: Napolitano non può sciogliere le Camere durante l’ultimo semestre del proprio settennato, a meno che lo scioglimento non coincida con l’ultimo semestre della legislatura. Qui però siamo al battesimo d’una nuova legislatura, che potrà interrompere soltanto il nuovo presidente. Mentre il vecchio, nel frattempo, dovrà pur conferire un incarico di governo, e saranno dolori. Dolori doppi, dato che alla frattura politica s’accompagna una frattura geografica, con tre regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto) legate dalla Lega per slegarle dal Paese. E una frattura generazionale, che ci cadrà sotto gli occhi quando i trentenni del Movimento 5 Stelle prenderanno posto in Parlamento.
C’è una via d’uscita? Sì che c’è, ma spetta alla politica. Se le istituzioni sono in stallo, è anche perché le forze politiche fin qui hanno cercato d’appropriarsene, di sequestrarle come si fa con un ostaggio. Invece le istituzioni sono la casa di tutti, dove si può vivere pure da separati in casa, come due vecchi coniugi uniti in un matrimonio senz’amore. Purché ciascuno abbia la sua stanza, e a nessuno sia vietato l’uso degli spazi comuni. La proposta formulata ieri a mezza bocca da Bersani — cedere la presidenza della Camera al Movimento 5 Stelle — è un buon viatico su questo cammino. Ora cerchiamo di non perderci per strada.

 

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