Spunti per un discorso sull’Europa

20 Feb 2013

Il discorso di Carlo De Benedetti pronunciato nel corso di un dibattito nella sede Rai di Bruxelles insieme ad esponenti del Parlamento Europeo.

Se c’è un tema in grado di far smarrire le mie certezze, questo è l’Europa. E’ sempre con un mixed feeling che mi ritrovo a pensare e a parlare del nostro destino comune. Un italiano che ha dato molto per costruire quel destino, Giuliano Amato, di tanto in tanto mi rassicura: vedi Carlo l’Europa è come un Ippogrifo – mi racconta andando a ripescare l’Ariosto e il suo strambo cavallo alato – è un essere ibrido, dall’andatura incerta e traballante, e tuttavia vola ed è in grado anche di raggiungere la luna.

Poi, però, leggo e mi sento di condividere Simon Tilford, quando scrive sul sito del Centre for European Reform di Londra, che l’eurozona ha raggiunto il limite del politicamente possibile, senza ancora aver fatto ciò che è necessario. E il rischio che ne deriva – aggiunge – è che tutto salti proprio per l’impotenza della politica davanti a ciò che serve e che essa non è in grado di fare.

Ecco due posizioni tra le quali mi muovo. Una certezza però ce l’ho. L’Europa è il nostro destino. E solo l’Europa può offrire un futuro ai nostri piccoli Stati. Non c’è spazio per i pigmei in un mondo di giganti. E solo se i pigmei sapranno organizzarsi in qualcosa di più grande avranno ancora un destino di prosperità.

I piccoli mammiferi ebbero la meglio sui dinosauri, ma lo fecero perché inventarono, all’interno delle loro specie, la vita associata. Collaboravano. Lavoravano insieme. Noi europei, italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, e – fatemelo dire con affetto e partecipazione, con stima e rispetto – GRECI, noi greci, saremo ancora in grado di essere dalla parte del futuro se sapremo lavorare di più insieme. Molto di più.

L’integrazione bancaria, i fondi salva-Stati, il fiscal compact sono segni di un percorso che stiamo facendo. Ma quando vedo Primi ministri tornare a casa trionfanti per aver ottenuto qualche miliardo in più per il proprio Paese nella trattativa sul bilancio europeo, dimenticando del tutto la priorità comune degli investimenti in ricerca e innovazione, allora prevale il pessimismo.

Mi dico che non ce la faremo. Che la tara degli Stati nazione è troppo radicata in ognuno di noi. Che ai nostri politici manca la necessaria lungimiranza. Che nelle nostre opinioni pubbliche perdura evidentemente una diffidenza e una ostilità, tale da far rifiutare i sacrifici richiesti in nome di una solidarietà comune che chiaramente non c’è.

Il punto di frizione fra ciò che è necessario e ciò che appare politicamente possibile è esattamente qui. La necessità di cui io sono convinto è quella dell’integrazione politica in chiave quasi federale. Non sono un esperto di questioni istituzionali. Ma di economia sì. E mi pare evidente che l’euro poggiato sul coordinamento intergovernativo dei bilanci nazionali si sia dimostrato fragile e che dobbiamo trovare il coraggio di ancorarlo a un bilancio federale europeo.

Che il contesto intergovernativo sia fragile lo si è visto con nitidezza in questa crisi, perché quel contesto non è stato in grado di fornire gli strumenti necessari a bilanciare le politiche di austerità, cosicché gli effetti recessivi di queste rimangono senza antidoti.Questo trasforma quello che era un tempo l’ideale dei visionari alla Spinelli in una necessità. Una necessità che non si può più rinviare a un futuro lontano.

L’Ippogrifo ha bisogno di uno scatto. Non basta avanzare in modo oscillante. Va data un’accelerazione potente, altrimenti rischiamo di precipitare al suolo.

I tempi dell’economia oggi sono cambiati. Non si può più aspettare l’evoluzione lenta e contraddittoria con cui l’Europa è avanzata nel secolo scorso. Lo richiedono le esigenze dell’economia, ma lo richiedono soprattutto le nostre opinioni pubbliche.

Non si può andare avanti con i greci in rivolta perché assoggettati a controlli interni impensabili per qualunque Stato membro di qualunque sistema federale al mondo; oppure con tedeschi e i finlandesi che si sentono costretti a pagare di tasca propria per i debiti altrui.

Tutti finiscono per prendersela con l’Europa. E hanno ragione. Perché così dell’Europa percepiamo tutti solo gli aspetti negativi. Soprattutto la avvertiamo come un soggetto estraneo, come una tecnocrazia che viene da noi solo per chiederci sacrifici.

Perciò non è rinviabile un’Europa federale. Perché solo così avremo un’Europa più democratica, più vicina ai suoi cittadini, più in grado di assicurare libertà. E, soprattutto, di farlo percepire.

Come vedete non sto più parlando da uomo dell’economia. Ma non è un caso. Conosciamo tutti le tante buone ragioni economiche dell’Europa unita. Il mercato unico, il Tesoro unico, una politica di investimento comune, il compattamento fiscale, una Banca centrale che possa combattere con mani più libere, una politica monetaria che in anni di guerra valutaria non lasci le imprese con un euro tanto forte da minare la loro competitività. Sono tutte necessità che a chiunque lavori nell’economia appaiono finanche ovvie. E io mi chiedo sempre quale maga Circe abbia annebbiato così tanto le nostre menti da farci ritenere di poter introdurre una moneta unica senza fare tutte queste cose prima. Ma è andata così e ora bisogna guardare avanti.

Guardare avanti con la lungimiranza di una politica che capisca che senza un’Europa federale e davvero democratica arriveremo alla rivolta delle nostre opinioni pubbliche contro l’Europa. Non avremo più dunque un lento avanzare, ma una rovinosa caduta al suolo.

Il populismo di cui ci si lamenta non viene da chissà quale galassia lontana, è il frutto di un’Europa che non dà spazio ai cittadini, ma ai governi e alle loro burocrazie, i quali sanno solo imporre regole fiscali. Tutti siamo d’accordo che bisogna fare di più sulla crescita. Ed è evidente che le politiche per la crescita sono oggi perseguibili soltanto a livello europeo. Perché allora non metterle in atto, andando in contro alla domanda che viene dai nostri popoli?

L’ostilità con la quale sono accolti i vincoli e gli obblighi di provenienza europea impaurisce i politici e gli addetti ai lavori e li induce ad andare avanti con cautela, evitando l’esplicita menzione degli sbocchi federali.Ricordo Jacques Delors che sosteneva che «l’Europa procede con una maschera sul viso». Per anni infatti le elite hanno proceduto nell’integrazione europea nascondendo anche a se stesse le implicazioni di ciò che andavano facendo, per ridurre le resistenze, comprese le resistenze reciproche.

Oggi però è vero il contrario. Quella maschera sul viso è diventata un muro dietro il quale i cittadini europei vedono solo poteri occulti e tecnocrazie avide. Quella maschera va tolta. All’Europa non è più consentito avanzare di soppiatto. Se vogliamo salvare il progetto comune è l’ora di un balzo verso la democrazia e verso l’assetto federale.

Lo ha sostenuto anche l’Economist: per salvare l’euro – ha scritto – non resta che orientarsi per una federazione, sia pure “leggera”. Tranne poi aver paura come tutti di quel termine, “federale”, come se questo spaventasse davvero le nostre opinioni pubbliche.

Secondo me i nostri cittadini sono spaventati dal termine tecnocrazia, non da un’Europa finalmente unita, federale e democratica.

E’ stato Jurgen Habermas a notare che i politici reagiscono con fastidio a chi parla di modello federale, ritenendo erroneamente che sia questo ciò che spaventa di più l’opinione pubblica. Questi signori credono davvero che si possa continuare a far procedere l’Europa con la maschera sul viso?

Io credo proprio di no. E spero che presto vedremo affermarsi in Europa leadership coraggiose, in grado di parlare il linguaggio della verità.

Habermas dice che dalle elite politiche dobbiamo pretendere che adottino modalità argomentative nuove e diverse, tali da essere «formative della mentalità politica» e da sottrarsi così alla sudditanza verso una precostituita e immodificabile volontà popolare, scaturita dalla «consueta rilevazione demoscopico-commerciale». Io dico che basterebbe anche meno: basterebbero leader in grado di leggere il senso vero delle domande che oggi vengono dai nostri cittadini e dare loro la democrazia e la libertà che i grandi federalisti americani seppero dare alla loro gente tanti decenni fa.

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