Riforme mirate della Carta

20 Feb 2013

«Una legislatura costituente». Quante volte abbiamo sentito usare questa espressione, come proposito, augurio o promessa (o minaccia?) nel dibattito politico? Non vorremmo che si ricominciasse nella campagna elettorale che si apre in questi giorni. In alcune legislature si è anche tentato di realizzare il proposito, perfino derogando alle procedure che la Costituzione prevede per le sue modifiche (con la previsione delle famose “bicamerali”, nelle legislature iniziatesi nel 1992 e nel 1996). Altre volte si è giunti fino all’approvazione di riforme poi però da tante parti giudicate (non del tutto a ragione) negativamente – la riforma del titolo V su Regioni ed enti locali, nel 2001 – ovvero approvate dalla maggioranza parlamentare del momento ma poi smentite (fortunatamente) dal referendum popolare – la riforma del 2005 (la c.d. devolution).

Nel frattempo, le uniche modifiche costituzionali arrivate in porto sono state quelle che avevano un oggetto delimitato e ben preciso e hanno seguito l’iter costituzionalmente previsto. Negli ultimi vent’anni, a parte la riforma del titolo V, si tratta dell’abolizione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari (1993), dell’introduzione dei principi del cosiddetto giusto processo (1999); dell’introduzione (assai discutibile) della quota di eletti in Parlamento dagli italiani all’estero (2000 e 2001); della riammissione degli eredi di casa Savoia nel territorio nazionale (2002); del principio delle pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici (2003); del bando definitivo della pena di morte anche nelle leggi penali di guerra (2007); dell’introduzione del principio del pareggio di bilancio (2012).

È il metodo corretto. Le riforme costituzionali non si fanno “a pacchetto”, in cui in Parlamento si rischia di far passare anche modifiche giudicate negativamente pur di ottenerne altre giudicate positive, e in cui nell’eventuale referendum popolare gli elettori a loro volta sono costretti a dire un “sì” o un “no” unico senza poter distinguere.
Dunque nessuna “legislatura costituente”, ma discussione seria e mirata su singole specifiche riforme, da varare, quando è il caso, distintamente l’una dall’altra.

Quali riforme? Anzitutto il Parlamento, per renderlo più efficiente e restaurarne la funzione. Ridurre il numero dei parlamentari è una misura su cui dovrebbe essere facile concordare, anche sull’onda dell’antipolitica (semmai si dovrebbe avere il coraggio pure di abolire la quota “estera” degli improbabili deputati e senatori eletti in circoscrizioni come l’Oceania o l’America latina: gli italiani all’estero potrebbero votare tornando in Italia o, con le debite garanzie, per corrispondenza).

Ma la vera riforma sarebbe la modifica del bicameralismo. Due sono le strade: trasformare il Senato in Camera delle Regioni o delle autonomie, formata da rappresentanti diretti degli enti territoriali, e compartecipe della legislazione che riguarda questi ultimi (sul tipo del Bundesrat tedesco); ovvero – ipotesi minore – passare a un bicameralismo “procedurale”, cioè rendendo facoltativo e non necessario l’esame di ogni provvedimento legislativo da parte di entrambe le Camere. Due strade da tempo proposte e articolate: non c’è che da scegliere.

Non necessitano invece di alcuna riforma “epocale” la struttura e i poteri del Governo. Questo già controlla l’amministrazione e dispone sia di poteri di iniziativa legislativa “privilegiati”, sia di poteri legislativi delegati o d’urgenza (il decreto legge, del quale si è fatto uso e abuso, che andrebbe invece contenuto). Se mai si potrebbe aggiungere (ma allo scopo potrebbero anche bastare i regolamenti parlamentari) il potere di chiedere e di ottenere che entro un termine ragionevole (diciamo novanta giorni) le Camere si pronuncino definitivamente, con un sì od un no, su un progetto del Governo, avente però un oggetto specifico, e non su “maxiemendamenti-minestrone”. In tal modo le giuste esigenze di celerità e chiarezza sarebbero soddisfatte, senza svuotare il Parlamento, che vorrebbe dire abolire un fondamento della democrazia, e impedire che la rappresentanza nazionale svolga il suo ruolo di sede di confronto e deliberazione definitiva delle leggi.

Tanto meno richiede riforme decisive l’istituzione Presidente della Repubblica, il cui ruolo di snodo e di coordinatore dei poteri ha largamente dimostrato di poter funzionare egregiamente nelle più diverse circostanze, soprattutto in quelle difficili (se non vi fosse stato il Presidente, un anno fa non avremmo potuto “salvarci” con Monti e la sua “strana” maggioranza, e avremmo magari ancora a che fare col Governo del discredito europeo e mondiale e col Parlamento delle leggi ad personam e delle compravendite di voti di fiducia).

Quanto alle Regioni e agli enti locali, a parte la vera riforma che consisterebbe nel farne la base della seconda Camera, si porrà il problema degli aggiustamenti – tutto sommato non difficili – alla riforma del 2001. Il quadro generale non dovrebbe cambiare: abolire tutte le Province (e non solo nelle Regioni piccole e piccolissime), non è una misura ragionevole; il disegno, già avviato, di riordino delle circoscrizioni provinciali non richiede modifiche costituzionali. C’è poi il tema degli organi di garanzia (magistrature e Corte costituzionale), per i quali le ipotesi di riforma agitate in questi anni hanno per lo più rischiato di costituire gravi minacce dal punto di vista dell’equilibrio fra poteri. Si possono, certamente, prospettare altre ipotesi più valide: ma il discorso sarebbe lungo, ed è perciò da rimandare ad altra occasione.

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