Il silenzio sui ministri

29 Gen 2013

Michele Ainis

Gli elettori hanno un difetto: sono curiosi. Vogliono sapere, prima di deporre una scheda nell’urna, quale uso si farà del loro voto. Ma i politici italiani hanno il difetto opposto: sono muti come pesci. O meglio, non è che si mordano le labbra; se è per questo, parlano fin troppo. Però usano parole reticenti sui programmi, silenzio di tomba sui programmatori.

Gli elettori hanno un difetto: sono curiosi. Vogliono sapere, prima di deporre una scheda nell’urna, quale uso si farà del loro voto. Ma i politici italiani hanno il difetto opposto: sono muti come pesci. O meglio, non è che si mordano le labbra; se è per questo, parlano fin troppo. Però usano parole reticenti sui programmi, silenzio di tomba sui programmatori. Quali facce esporrà la squadra di governo prossima ventura?
Eppure il dubbio non è di poco conto. Specie con questa legge elettorale, che proibisce al popolo votante di scegliere il popolo votato. Anzi: che gli impedisce perfino di sapere per chi vota, dato che il giochino delle pluricandidature consegna all’eletto il potere di decidere l’eletto. E l’elettore? Da lui pretende un atto di fede, una delega in bianco. Possiamo anche firmarla, ormai ci siamo avvezzi. Possiamo esprimere la nostra preferenza basandoci sulla fotografia del leader, sul suo eloquio in tv, sui suoi motti di spirito. Ma certo non ci spiacerebbe qualche ulteriore informazione. A cominciare dai ministri in pectore , perché no? Dopotutto le idee camminano sulle gambe degli uomini.
Per esempio: nel caso, fin qui probabile, che il Pd vinca le elezioni, verrà apparecchiato un posto a tavola per Vendola? Probabile anche questo, ma al momento è un segreto di Stato. E quale posto, poi? Altro è offrirgli in subappalto il dipartimento per le Pari opportunità, altro l’Economia: in quest’ultima evenienza cambierebbe la linea politica, non soltanto la poltrona del politico. Senza dire dei grandi esclusi, che hanno fatto un passo indietro in omaggio al rinnovamento delle liste. Quanti di loro, usciti dalle porte girevoli di Montecitorio, rientreranno dalle finestre di Palazzo Chigi? Il più illustre di tutti – Massimo D’Alema – si è già dichiarato disponibile, se arrivasse una chiamata. Ma se la chiamata giungesse prima del voto potremmo misurare anche la nostra disponibilità, oltre che la sua.
D’altronde a destra è pure peggio: in caso di successo, non sappiamo nemmeno se Berlusconi farà il ministro di Tremonti o viceversa. Sicché non ci rimane che puntare qualche fiche sul totoministri (11.300 risultati interrogando Google, fra i più gettonati Fassina e Tabacci). Leggere appelli disperati come quello promosso da un gruppo d’operatori turistici («Fuori il nome del prossimo ministro del Turismo», 23 mila fan su Facebook). Scommettere, oltre che sui nomi, sui numeri del prossimo governo (una legge del 1999 limita i dicasteri a 12, ma nessun esecutivo l’ha mai rispettata). E intanto prepararci ad ascoltare le obiezioni che la politica dispensa ai ficcanaso. Una su tutte: da che mondo è mondo tali faccende vengono decise dopo il voto, non prima. Perché c’è da pesare il risultato, e perché c’è da mettersi d’accordo con gli alleati di governo.
Errore: ogni partito punta alla vittoria solitaria, e infatti presenta un programma e un candidato premier. Poi può ben darsi che sia costretto a un matrimonio, ma intanto s’offre al voto quand’è scapolo, non dopo le nozze. Errore doppio: altro sono le cariche arbitrali (come la presidenza del Senato), su cui nessuno dovrebbe esercitare un monopolio; altro quelle politiche.
Errore triplo: secondo l’articolo 92 della Costituzione, è il presidente del Consiglio incaricato che detta la lista dei ministri, mentre l’incarico lo conferisce il capo dello Stato. Invece abbiamo in lizza una quantità di autoincaricati, che però tacciono sugli autoministri. Errore quadruplo: questa è la Seconda Repubblica, non la Prima. Una volta ti guadagnavi i galloni da ministro con il pieno di preferenze nelle urne, adesso (ahimè) deve preferirti il Capo. Errore quintuplo: funziona più o meno così negli altri sistemi parlamentari. In Germania, il leader socialdemocratico Steinbrück s’appresta a presentare la sua pattuglia di governo in vista delle elezioni di settembre. Nel Regno Unito, il governo ombra si trasferisce pari pari a Downing Street, se l’opposizione vince la sfida elettorale; mentre la maggioranza sceglie i ministri nel congresso di partito che precede il voto.
E in Italia? L’ultima speranza sta nella buona educazione: chiedere è lecito, rispondere è cortesia.

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