L’Europa light di Downing street

24 Gen 2013

«Se lasceremo l’Unione, sarà un biglietto di sola andata, senza possibilità di ritorno». Così il Primo Ministro britannico David Cameron, che, nel corso dell’attesissimo “Eu Speech”, ha promesso agli inglesi il referendum sull’appartenenza all’Unione europea.

«Se lasceremo l’Unione, sarà un biglietto di sola andata, senza possibilità di ritorno». Così il Primo Ministro britannico David Cameron, che, nel corso dell’attesissimo “Eu Speech”, ha promesso agli inglesi il referendum sull’appartenenza all’Unione europea. In fondo, c’era da aspettarselo. Il Regno Unito, si sa, non è mai stato particolarmente acceso da entusiasmi “europeisti”. Forte della rete rappresentata dal Commonwealth e della “special relationship” con i cugini d’oltreoceano, non ha mai investito molto sulla casa comune europea, da quando – nel lontano 1973 – vi entrò a far parte. «La vita politica britannica è stata caratterizzata da fortissime polemiche sulla natura del legame tra la Gran Bretagna e il continente», spiega lo storico Mark Gilbert. «Ignorare o minimizzare la portata di questa crisi di identità politica (perché è di questo che si tratta) sarebbe, per qualsiasi storico inglese, una falsificazione del significato dell’integrazione europea». Da tempo, insomma, non c’è solo la Manica a dividere il Regno Unito dal resto d’Europa. Per molti, i problemi risalgono addirittura ai tempi della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951). Spaventata dalla cessione di sovranità prevista dal progetto (l’Alta autorità era configurata come organismo sopranazionale), l’Inghilterra si tenne prudentemente fuori dal gioco, perdendo una grande opportunità: entrarvi a far parte avrebbe significato per il Regno unito (allora maggiore produttore nel settore carbosiderurgico) la possibilità di agire da primus inter pares, influenzando le costituenda costruzione europea dall’interno. Ma poi, soprattutto, c’è la moneta: gli inglesi dell’Euro non ne hanno mai voluto sapere (non sono i soli: dei 27 paesi dell’Unione, l’Euro è la valuta ufficiale di 17 stati) e mai si sono convinti ad abbandonare la cara vecchia Sterlina. Già dai tempi del Sistema monetario europeo (‘79) – embrione della politica monetaria comune, una sorta di banda di fluttuazione per legare tra loro le valute europee – il Regno Unito non si fece coinvolgere. La moneta? Sede di troppa sovranità per poter essere ceduta ad un’Europa in costruzione, così ragionava una recalcitrante ed (euro)scettica Gran Bretagna. Dopo timidi tentativi – durante l’epoca di un possibilista Tony Blair si pensò addirittura ad un referendum popolare per entrare nell’Euro, idea che ha poi finito per impantanarsi miseramente nelle secche del più generale fallimento del trattato costituzionale – gli inglesi non si sono mai decisi. Moneta a parte, frizioni tra Londra e Bruxelles si sono avute anche con il “I want my money back” della sig.ra Thatcher: allora erano questioni di budget a preoccupare gli inglesi, dal momento che il Regno Unito finanziava la Politica agricola comune senza avvantaggiarsene più di tanto. Ma mai come ora la stessa membership è stata così duramente osteggiata. Complici, le incertezze e i ritardi dell’Ue nella gestione dell’attuale crisi economico-finanziaria, ma anche i lacci e i lacciuoli recentemente imposti alla finanza e prontamente rifiutati dagli inglesi (avrebbero depotenziato, e non poco, la City londinese). «I cittadini – spiega il numero uno di Downing Street – vivono con crescente frustrazione il fatto che decisioni prese sempre più lontano impoveriscano il loro tenore di vita o che le loro tasse siano usate per salvare governi dall’altra parte del continente». E snocciola la sua visione di Europa: competitiva («il mercato unico è ancora incompleto»), flessibile («l’Ue dovrebbe agire come una rete, non come un ingombrante monolite»), democratica («c’è bisogno di un ruolo più significativo per i parlamenti nazionali»). Insomma, tra (molte) critiche, (alcune) intuizioni felici e (qualche) timida apertura, il numero uno di Downing Street ipotizza un’Europa light, che lasci le mani libere agli inglesi. Più simile ad un’area di libero scambio che ad una vera e propria Unione. Ma – costretto a mediare tra l’anima più euroscettica e quella europossibilista del suo partito – tende la mano ai partner europei: «se non affrontiamo queste sfide, l’Europa andrà verso il fallimento e gli inglesi opteranno per l’uscita. Non voglio che questo accada. Voglio che l’Unione europea sia un successo». La proposta, insomma, è quella di rinegoziare l’appartenenza britannica. Con l’avviso che – se la libertà garantita non sarà sufficiente – saranno le urne a decidere. In fondo, niente (o poco) sembra essere cambiato dall’epoca dello “splendido isolamento” di vittoriana memoria, quando un’Inghilterra “padrona del mondo” si teneva prudentemente distante dai vischiosi affari europei. Tutto cambia, nulla cambia, insomma. E gli inglesi sono sempre quelli che – con un misto di nazionalismo e superbia (sono e si sentono tuttora gli eredi del “British Empire”) – scrutando l’orizzonte ripetono a se stessi e al mondo: “Nebbia sulla Manica, il Continente è isolato”.

 

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