Perché non possiamo fare a meno dei partiti

09 Gen 2013

Nel suo ultimo saggio “Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti” Piero Ignazi descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana.

Ormai l’antipolitica è dovunque. È entrata nel linguaggio corrente della vita quotidiana e nel discorso “politico”. Un argomento usato dai leader politici a fini polemici. Tuttavia, il bersaglio dell’antipolitica non è la “politica” in quanto tale. Coincide, piuttosto, con i partiti. Che, in Italia, godono — si fa per dire — di pessima reputazione. Peraltro, è largamente condivisa la convinzione che la “malapolitica” condotta dai partiti costituisca un “male” tipicamente italiano, che si è propagato con particolare intensità negli ultimi anni. Piero Ignazi smentisce questa leggenda, ricostruendo la “storia” e la “geografia” del fenomeno in un saggio dal titolo esplicito e suggestivo:
Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, pagg. 153, euro 14). Dove l’autore descrive, con rara efficacia, il paradosso apparente espresso dai partiti. Oggi più che mai delegittimati, sfiduciati dai cittadini. Eppure, oggi più che mai, dotati di potere e di influenza, in ambito istituzionale, ma anche nel mondo sociale, nella vita quotidiana. Ignazi ridimensiona i ragionamenti di “senso comune” sull’argomento. La sfiducia verso i partiti non è un fatto recente, non riguarda il nostro tempo. E non è una specialità italiana.
Dal punto di vista storico i partiti non hanno mai goduto di buona stampa. «La colpa», esordisce Ignazi, «è nel nome». Perché il partito deriva dal latino partire. E, per questo, evoca la parzialità.
Per questo sono distinti dalle “fazioni”. Ma spesso ritenuti equivalenti e altrettanto faziosi. Così, secondo Hobbes, i partiti diventano «uno Stato nello Stato». E per questo «è dovere dei governanti disperderli». I partiti, cioè, vengono considerati veicoli di interessi particolari, in contrasto con l’interesse “generale”, con il “bene comune”. Ma sono molti altri i critici autorevoli dei partiti. Ignazi ne ripercorre le posizioni. Rammenta, fra gli altri, Alexis de Tocqueville, il quale ammette che «i partiti sono un male inerente ai governi liberi». Dunque, un male inevitabile, ma comunque, un male. Bisogna attendere il passaggio tra Otto e Novecento per assistere al cambiamento del clima d’opinione verso i partiti. E di riflesso al cambiamento del loro rapporto con la società. I partiti conoscono un’età dell’oro durante la prima metà del secolo trascorso. Quando si affermano i partiti di massa. Socialisti, comunisti, popolari. Rappresentano e mobilitano le masse, appunto. Stabiliscono un legame di identificazione e di identità con i loro elettori. Anche perché sono presenti sul territorio nella società. Inoltre, sono partiti di iscritti, dotati di un’ampia rete di volontari, ma anche di funzionari. Per garantire continuità ed efficacia alla loro azione. Per questo, dispongono di consenso sociale, ma al tempo stesso, si professionalizzano sempre più. E si evolvono in senso oligarchico. Per adattarsi alla complessità sociale diventano “pigliatutti”. Partiti elettorali, che non hanno più un target specifico e definito. Ma si rivolgono, appunto, a tutti gli elettori. Per questo, perdono le loro specificità ideologiche. «Degli iscritti, così come delle sezioni territoriali», appunta Ignazi, «non c’è più bisogno». I partiti, quindi si rifugiano nelle istituzioni e sui media. Diventano, cioè, partiti di cartello. «Agenzie pubbliche regolamentate e ufficializzate che – sottolinea l’autore – dallo Stato traggono le loro risorse legalmente con il finanziamento pubblico e in maniera opaca attraverso il patronage ». Investono, cioè, nel controllo clientelare dell’opinione pubblica. Per questo, conclude Ignazi, «i partiti sono oggi in Europa molto più forti di un tempo».
In Europa, si badi bene. Perché queste tendenze non riguardano solo l’Italia. Ma coinvolgono tutti i principali paesi europei. Dalla Francia alla Germania. Dal Belgio all’Austria. Per non parlare delle nuove democrazie. Il partito è, dunque, divenuto “stato-centrico”. Ma si è indebolito sul territorio e nella società. Per questo la stima nei loro confronti è precipitata. Ciò li ha spinti a correre ai ripari. Allargando il richiamo alla volontà popolare, il ritorno agli iscritti. E agli elettori. In modo diretto. Attraverso le primarie. Ma anche, in alcuni casi, attraverso lo scambio diretto tra leader e popolo. In modo carismatico e populista.
Da ciò il problema di questa fase. Perché, scrive Ignazi, «non c’è scampo: senza i partiti non c’è democrazia. Se vogliamo un sistema democratico e pluralista dobbiamo tenerci dei partiti». Ma «questi » partiti, «hanno scambiato il potere con la fiducia ». Per reagire, conclude l’autore, i partiti dovrebbero «spossessarsi di tante delle risorse accumulate ». Una condizione necessaria ma non sufficiente. E, purtroppo, difficile da realizzare, con “questi” partiti. Così, il saggio di Ignazi appare utile, interessante. Ma anche amaro. Perché in fondo al tunnel, oltre il paradosso che produce forza senza legittimità, non si vede la luce.

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