Quelle telefonate con Mancino tra sospetti e intercettazioni

05 Dic 2012

TUTTO quello che fino ad allora sembrava scontato e anche provato processualmente — una trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi — all’improvviso ha cominciato a fare tremare l’Italia. Telefonate. Telefonate intercettate. Fra uno dei presunti protagonisti di un patto e qualcuno dentro il Quirinale che dava l’impressione di agire nell’ombra, di manovrare per affrontare un «affaire » che stava trascinando in un gorgo alcuni rais della politica e funzionari di alto rango. Tutti precipitati nelle indagini dei pubblici ministeri di Palermo, quelli che indagavano sui negoziati avvenuti prima e dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, prima e dopo l’autobomba che aveva fatto saltare in aria anche Paolo Borsellino.
Da una parte Nicola Mancino, ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1992 ministro dell’Interno. Dall’altra Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, vent’anni prima amico dei due magistrati siciliani
assassinati.
Parlano. Parlano dell’inchiesta
palermitana che si sta inghiottendo Mancino. Lui, l’ex ministro, si muove scomposto. Chiama per mesi il Quirinale facendo capire che da solo non può sopportare tutto il peso delle investigazioni che gli stanno rotolando addosso, chiede ufficialmente «un coordinamento delle indagini fra Palermo, Caltanissetta e Firenze perché i pm arrivano a conclusioni contraddittorie fra loro», in realtà sembra che voglia sottrarsi al giudizio dei magistrati di laggiù, i palermitani. Ed evitare soprattutto un faccia a faccia con un altro ministro dell’epoca, il Guardasigilli Claudio Martelli. L’ex ministro insiste. Cerca aiuto. Scalpita. Il suo interlocutore al Quirinale gli risponde sempre.
Il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio raccoglie i suoi lamenti.
E’ il caso dell’estate del 2012. Le telefonate intercettate fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio. Il primo imputato a Palermo con altri undici personaggi — mafiosi come Totò Riina ed ex ministri come Calogero Mannino e generali dei carabinieri come Mario Mori — nel processo per la cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Il secondo morto per infarto pochi giorni dopo le incandescenti polemiche sollevate dal disvelamento delle conversazioni
fra i due.
Telefonata del 12 marzo di quest’anno. «Eccomi, io ho parlato con il presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia – ndr)». E’ il consigliere giuridico del Quirinale che, rispondendo alle insistenti richieste di Mancino, lo informa di quello che sta facendo. Mancino aspetta e D’Ambrosio gli dice: «Ma noi non vediamo molti spazi purtroppo… adesso probabilmente il presidente
parlerà con Grasso nuovamente… vediamo un attimo anche di vedere con Esposito… (il procuratore generale della Cassazione ndr)… qualche cosa… ma… la vediamo insomma difficile la cosa ecco… (…) Dopo aver parlato col presidente riparlo anche con Grasso e vediamo un po’… Però, lui, lui proprio oggi dopo avergli parlato, mi ha detto: ma sai, io non posso intervenire. Capito, quindi, mi sembra orientato a non intervenire. Tant’è che il presidente parlava di… come la Procura nazionale sta dentro la Procura generale, di vedere un secondo con Esposito (il procuratore generale della Cassazione – ndr)».
Che cosa si stanno dicendo, Mancino e D’Ambrosio? Si stanno dicendo che il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso non vuole intervenire sui pm di Palermo per un’avocazione dell’inchiesta e quindi bisogna in qualche modo «scavalcarlo» con il suo superiore, il procuratore generale della Cassazione. L’ex ministro
dell’Interno è molto agitato, teme da un momento all’altro di diventare imputato nel processo sulla trattativa. Si sfoga: «Non so dove vogliono arrivare questi (i pm palermitani – ndr), che vogliono fare». Gli ribatte D’Ambrosio: «Ma è chiaro che… che non si capisce proprio, ma non si capisce neanche più la trattativa se devo essere sincero. Io l’oggetto della trattativa mica l’ho capito, no… mi sfugge proprio completamente». E lo rincuora: «Certo, ma io comunque riparlerò con Grasso, perché il presidente mi ha detto di risentirlo. Però io non lo so… francamente… lui è ancora orientato a non fare niente, questa è la verità».
Le telefonate fra Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio cominciano il 25 novembre del 2011 e continuano fino al 5 aprile del 2012. Il giorno prima — il 4 aprile — il segretario generale della Presidenza della Repubblica Vincenzo Marra invia una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa ».
Il 5 aprile D’Ambrosio, quella lettera gliela legge a Mancino: «Per
incarico del Presidente della Repubblica trasmetto la lettera con la quale il senatore Nicola Mancino si duole del fatto che non sono state fin qui adottate forme di coordinamento…
».
Un paio di settimane dopo il nuovo procuratore generale Gianfranco Ciani convoca il procuratore Grasso. E’ il 19 aprile. Grasso sostiene — è a verbale di quella riunione — che esiste un coordinamento fra le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze. I tentativi di Nicola Mancino di far avocare l’inchiesta a Palermo non vanno a buon fine. L’indagine resta in Sicilia.

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