La libertà di stampa costerà cara?

08 Nov 2012

Il disegno di legge surrettiziamente denominato “Disposizioni in materia di diffamazione per la tutela della libertà di stampa e della dignità del diffamato”, ben poco reca per la salvaguardia del diritto di espressione ed ancor meno apportano in tal senso gli emendamenti proposti in aula.

Il tema è talmente rilevante per la sopravvivenza di un ordinamento democratico da non poter tacere quanto si va consumando in questi giorni tra commissioni Giustizia ed aule. Il disegno di legge surrettiziamente denominato “Disposizioni in materia di diffamazione per la tutela della libertà di stampa e della dignità del diffamato”, ben poco reca per la salvaguardia del diritto di espressione ed ancor meno apportano in tal senso gli emendamenti proposti in aula.
E’ vero, è abolita la pena detentiva per la diffamazione. Mi rallegro di questa proposta soltanto perché ho sempre ritenuto che la reclusione nel massimo a sei anni per la diffamazione aggravata con il mezzo della stampa fosse una scure inconciliabile e distonica rispetto a pene previste per reati più gravi. La si è tollerata, senza grandi battaglie, da oltre un lustro dalla sua introduzione, perché il sistema giudiziario aveva trovato un equilibrio interno nella prassi. Poche le pene detentive inflitte; a mio conto tre soltanto dagli anni cinquanta quelle da scontare. Dal caso Guareschi (che però non aveva proposto appello), a Iannuzzi che è riparato all’estero (fino alla prescrizione della pena) alla fine: Sallusti che orgogliosamente ha rifiutato di chiedere la misura alternativa al carcere che lo avrebbe mantenuto in piena libertà. Ha così sottoposto a pressione violenta il legislatore, quasi immolandosi per pretendere una riforma.La questione era delicata sin dall’inizio. Ma il sasso lanciato dal Direttore del Giornale (condannato per articoli pubblicati quando dirigeva Libero) è stato raccolto e ha agitato le acque stagnanti di tanti tentativi di riformare la stampa. In piena crisi economica e politica – occorre dirlo – mancava soltanto questa grana per complicare la vita al Parlamento ed al Governo. Questa volta occorreva un intervento garantista: escludere la pena della reclusione per questo reato. E tanto prontamente è stato fatto dai solerti proponenti del disegno di legge, abrogata tout court la pena detentiva per la diffamazione. Sennonché in una fase storica che somiglia al Basso impero bizantino, per gli scandali che invadono i giornali ed affliggono ogni aspetto della vita pubblica, non potevano mancare revanchismi liberticidi. Oggi, non conta quello che si è fatto, conta cosa se ne scrive.
Allora la riforma è stata inizialmente decorata da norme che tendevano a mercificare l’onore, incidendo e limitando in altro modo la libertà di stampa, aumentando i risarcimenti, le pene pecunairie che gli editori devono sostenere. Non credo si tratti di eterogenesi dei fini, ma di un preciso disegno di non colpire gli autori del reato (come avveniva per la reclusione) ma i loro datori di lavoro, fino a mettere in crisi testate giornalistiche minori, prive delle coperture finanziarie. Un altro limite che soffriva e soffre la riforma è la sua parcellizzazione. Il reato di diffamazione vive al centro di un sistema penale di tutela dei diritti della persona. Eliminare la reclusione per i soli reati d’ingiuria e di diffamazione provocherebbe profondo distonie in questa geometrica architettura. Mi ripeto: occorrerebbe adeguare, diminuire la eccessiva pena della reclusione ora prevista, non abrogarla. Altrimenti, si verrebbe a creare nel sistema un terremoto insostenibile. L’oltraggio (è soltanto l’ingiuria a pubblico ufficiale) reintrodotto dopo l’abrogazione continuerebbe ad essere punito con la reclusione, ma lo scritto diffamatorio (ben più grave) in danno dello stesso pubblico ufficiale, no. Intollerabile anche che un bene, la riservatezza o secondo la moda la privacy, di livello e rilievo inferiore alla diffamazione continuerebbe ad essere garantito dalla sanzione penale, ed altrettanto molteplici contravvenzioni, come la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penali o la pubblicazione del nome della vittima di reati sessuali. Come queste norme e le loro sanzioni possano convivere in un ordinamento in cui la diffamazione non sia punita con la reclusione non è dato, ad una mente sistematica, intendere.Quello che, tuttavia, desta maggiore impressione – oltre la concentrazione su un reato senza avvedersi che si tratta di un satellite – sono due aspetti: il primo l’originario contenuto del disegno che per equilibrare la abrogazione della pena detentiva imponeva sanzioni pecuniarie e risarcitorie illimitate. V’è da ricordare che alla condanna per diffamazione si associa quella al risarcimento dei danni patrimoniali (raramente provati), dei danni non patrimoniali (discrezionalmente liquidati) e della riparazione pecuniaria (un istituto speciale inventato dal legislatore del 1948 ad ulteriore presidio del diffamato). A ben vedere, non esistevano lacune di tutela per l’offeso che, anzi godeva di un sistema speciale per ottenere risarcimenti economici, la cui misura era demandata alla motivata discrezionalità del Giudice.
Sennonché è parso occorresse un contrappeso all’abrogazione della pena detentiva, da qui nell’originario disegno di legge erano previste multe con un minimo segnato, senza previsione del massimo e riparazioni di livello minimo elefantiaco. Il business della diffamazione veniva dunque amplificato dall’attesa remunerativa pecuniaria, distanziandosi sempre di più dalle tradizioni (all’offesa si rispondeva con il duello, mettendo a repentaglio la vita o l’incolumità) e si imboccava definitivamente la rotta della mercificazione dell’onore. Grave la riforma, ma non colpiva il vero bersaglio: l’autore del reato: il giornalista, almeno usualmente e nelle testate più prestigiose, rimane indenne dalle pene pecuniarie e dai risarcimenti, usualmente sopportati dall’editore. Nessun effetto deterrente per l’autore dell’offesa avrebbero, dunque, le nuove norme penali, ma soltanto quello di creare interferenze fra il settore finanziario della società editrice e quello editoriale, che dovrebbe essere indipendente, almeno in una democrazia perfetta. L’osservazione ha portato l’aula, che doveva discutere il disegno, a produrre in maniera fluviale emendamenti destinati a colpire i giornalisti direttamente. Forse il più fantasioso è stato il divieto della manleva dell’editore; che avrebbe costretto il giornalista a pagare con i propri beni le condanne. Una misura – che se non avesse gravissime ripercussioni sull’autocensura – parrebbe risibile. Esistono pochi giornalisti capaci di sopportare il costo di un solo risarcimento e della multa prevista dal disegno di legge. Contro chi non ha, le sanzioni pecuniarie nulla possono. Nessun presidio vi sarebbe, dunque, stato per l’offeso; che di fronte a tanta manna promessa dalla legge, si sarebbe trovato ad inseguire vane e costose azioni recuperatorie. Immagino poi la fuga dalla poltrona di Direttore responsabile, colpito necessariamente, per il retrivo sistema attuale, da condanne per fatti che non coinvolgono neppure la sua colpa. Si poteva immaginare in questo profluvio di riforme di cogliere un suggerimento di un passato disegno di legge che proponeva di conservare la responsabilità del Direttore soltanto per gli articoli anonimi adeguandola quindi a quella dell’editore di stampa non periodica. Ormai, infatti, la dimensione assunta dai giornali, veri e propri volumi con annessi, impedisce e rende inesigibile un effettivo controllo sui contenuti. Nessuno è in grado di eseguirlo. Dunque la norma reprime un fatto privo di colpevolezza e colpisce il Direttore soltanto per la posizione rivestita. Si è detto tuttavia che il disegno è soltanto apparentemente improntato al garantismo; infatti, dopo l’abrogazione della pena detentiva, invece, di adeguare la responsabilità del Direttore, la estende anche ai direttori dei radiotelegiornali e di altri mezzi di comunicazione. Ovvio che con quest’ultimo termine s’intenda coinvolgere il mondo della telematica sinora esente da condanne automatiche. La proposta è contraria ad una ferma dottrina che da anni sostiene che il controllo e la verifica su internet è inesigibile, per la molteplicità dei contenuti e la loro volatilità (un testo può essere soggetto a modifiche più volte nel corso di pochi minuti). Invece, di intraprendere la sana via di un diritto del fatto e della colpevolezza, il disegno percorre la strada della responsabilità oggettiva al solo fine di aumentare la pressione anche sul mezzo più democratico e libero che esiste: internet.
Altro delicato passaggio sta nella modifica della disciplina della rettifica: obbligatoria e sanzionata penalmente se non pubblicata non incontra più alcun limite si spazio; secondo i proponenti è dovuta se l’interessato si ritenga offesa o ritenga che l’informazione non sia vera. In più vietati commenti con i quali sinora il giornalista poteva spiegare la propria posizione di fronte ad una rettifica pubblicata. Il panorama che si apre appare surreale se la proposta dovesse essere approvata. Le rettifiche fiorirebbero senza contenzione, senza dialogica. L’editore si vedrebbe costretto a pubblicarle anche se false obiettivamente e le pagine dei giornali ne sarebbero invase, con buona pace dell’equilibrata informazione. Wikipedia avverte i suoi utenti che, se la norma dovesse entrare in vigore, scomparirebbe dal web perché non potrebbe permettersi di rincorrere le richieste di rettifica, persino le più assurde. E’ questo il clima che si vuole instaurare nel paese, dunque, il timore della informazione, assediata da pene e misure repressive, anche se non dalla reclusione.
Un simile disegno non poteva subire un iter normale. Arrivato in aula è stato sepolto da richieste di emendamenti se possibile ancor più liberticidi. La stampa, forse, non si era accorta di quante inimicizie avesse maturato nel mondo politico pronte a segnarne il destino. Certo è che non si poteva aspettare proposte come quelle di escludere la manleva dell’editore per pene pecuniarie e risarcimenti. L’intento è evidente, ma cieco: colpire economicamente il giornalista. Sennonché si dimentica che questi non sono tutti novelli cresi capaci di sopportare con gli stipendi pene e risarcimenti innalzati in misura elevata, sicché oltre azioni esecutive e pignoramenti questa nuova idea sarebbe controproducente per l’offeso che, ottenuta la condanna, non si troverebbe soddisfatto finanziariamente. Pericolosa sino al limite della orte civile un’altra idea: introdurre la pena accessoria della sospensione dall’albo dei giornalsiti. Si tratta di una condanna che il Giudice dovrebbe pronunciare automaticamente con la decisione di responsabilità per la diffamazione. Mettere a repentaglio il proprio lavoro, magari per un errore colposo od una svista che po’ produrre una diffamazione non malevola, è decisione certamente antidemocratica. L’attuale sistema, bel collaudato, prevede che le sanzioni disciplinari, compresa la sospensione, ma ad iniziare dalle minori, siano applicate dall’Ordine dei Giornalisti, con un procedimento dedicato che tenga conto di tutti gli aspetti deontologici del caso e che conta ben tre gradi di giudizio. Una valutazione meditata dunque, non un meccanismo trituratore che colpisca qualsiasi diffamazione, anche la più lieve.
Ovvio, che dinanzi a tanta messe di idee l’Aula non potesse che rinviare il testo in Commissione, la Commissione lo ha risottoposto all’Aula e ieri è tornato in Commissione per astensione del suo Presidente. Un iter alquanto scomposto che costituisce un altro indice della malsana aria che percorre questo disegno di legge.

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