Il posto della cultura

05 Nov 2012

Il testo integrale della lectio magistralis che Gustavo Zagrebelsky avrebbe dovuto tenere lunedì 5 novembre alle 21.00 nell’ambito di Florens 2012 e che a causa di problemi personali sopraggiunti all’improvviso, non potrà essere svolta.

Seguirò una traccia che porta alla nostra questione – qual è, anzi quale deve essere, il posto della cultura nella vita sociale – a partire da un punto solo apparentemente lontano dalla meta, dal numero tre. Il tre è il numero-chiave d’ogni concezione della vita degli esseri umani in società, sia dichiaratamente sia, più spesso, implicitamente. Possono cambiare i soggetti – chi o che cosa siano, rispettivamente, l’uno, il due e il tre – ma sempre al tre si arriva. Dice la Mishnah, per spiegare l’ordine dell’universo: “su tre cose si regge il mondo, la giustizia, la verità e la pace”. Qui, non parliamo di che cosa regge il mondo ma, umilmente (si fa per dire), di che cosa regge le società umane. Anche qui, incontriamo un tre, come numero-chiave.

Uno, due, tre. Il numero uno è il numero del dispotismo monarchico. Dove c’è un despota, non esistono rapporti orizzontali tra i singoli individui, e quindi nemmeno esiste società. Esiste solo soggezione. Più che “stare insieme”, si sta da soli, l’uno accanto all’altro, ciascuno per sé, in quanto suddito sotto l’ “uno”. Non si ha con-vivenza ma co-esistenza “per forza”. Quando vale il numero due, il rapporto tra i singoli è un a-tu-per-tu, un afflato reciproco e spontaneo; se si vuol dire così, si sta insieme non co-esistendo “per forza” ma con-vivendo “per amore”, o per la forza dell’amore. Che si stia durevolmente insieme esclusivamente in base all’afflato reciproco che si rinnova giorno per giorno sarebbe, però, già di per sé un fatto miracoloso. Il rischio sempre incombente è che questo genere di vita comune si rovesci in rapporto d’odio. Il numero due, infatti, come è il numero della concordia, quando domina l’amore, è anche il numero della discordia, della guerra, delle pulsioni sopraffattrici dell’uno sull’altro, quando l’amore cessa e gli succede l’odio. Ma, soprattutto, sul numero due, se può costruirsi, sia pure precariamente, una convivenza a due, non può costruirsi una società. La società non è un insieme di rapporti bilaterali concreti, di persone che si conoscono reciprocamente, ma è un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono come facenti parte d’una cerchia umana comune, senza che gli uni nemmeno sappiano chi sono gli altri. Come può esserci società tra perfetti sconosciuti?
Qui entra in gioco il numero tre, in quanto terza dimensione.

Importanza del terzo. Riconoscersi senza conoscersi è condizione d’esistenza d’una società fatta di grandi numeri. Come può accadere? Consideriamo l’espressione: io mi riconosco in qualche cosa. Quando sono numerosi coloro che non si conoscono reciprocamente, ma si ri-conoscono nella stessa cosa, ecco formata una società. Questo “qualche cosa” di comune è “il terzo”. Il terzo è ciò che consente la “triangolazione” senza la quale non esiste società: tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta e, da questo riconoscimento, discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là delle semplice vita biologica individuale. Quando parliamo di fraternità (tradizione illuminista) o di solidarietà (tradizione cattolica e socialista) – due concetti che occupano un posto importante nella storia delle costituzioni moderne – implicitamente ci riferiamo a qualcosa che “sta più su” dei singoli fratelli o sodali: fratelli o sodali in qualcosa, in una figliolanza, in una comunanza, in una missione, in un destino comune. Al parricidio e dunque alla fine del patriarcato, di per sé non subentra affatto una società di fratelli; segue semplicemente la dispersione, se al vecchio padre non se ne sostituisce un altro, per quanto di natura non biologica ma ideologica, che ne prenda il posto come nuovo “terzo”.

Nelle società antiche basate sulla religione, il terzo come problema non si poneva perché era già risolto a priori. Il terzo era Dio, nel quale tutti si riconoscevano come suoi figli: credo, come te, nel Dio padre o padre-padrone comune, dunque siamo fratelli e dunque tra di noi c’è società, anche se non ci conosciamo. Se poi, come nel Cristianesimo, il Dio s’è fatto uomo ed è diventato “figlio come noi”, il legame sociale e la societas christiana possono celebrarsi concretamente in liturgie che hanno al centro il ricordo di quella comunanza dell’umano col divino che s’è fatto umano. Tutte le religioni sono ricchissime di simboli che segnano i luoghi, gli edifici, perfino l’abbigliamento e i corpi degli appartenenti. I simboli sono “segni del terzo”. La simbologia serve a segnare il legame tra gli esseri umani nella fede in qualcosa di comune. Il simbolo religioso delimita così i confini d’un territorio spirituale, entro il quale ci si sente amici e fratelli, appartenenti a qualcosa – un destino provvidenziale, una missione o, semplicemente una convivenza amichevole – che co-involge, senza bisogno del rapporto diretto di uno con l’altro, soggetti d’ogni luogo e d’ogni tempo, della presente, delle passate e delle future generazioni. La professione di fede comune che si svolge lo stesso giorno, alle stesse ore, in tutti i luoghi del mondo è l’espressione di questa unione astratta, attorno a simboli che rinviano al medesimo principio d’unificazione. Il più importante, nel Cristianesimo, è il “credo” che si chiama “Simbolo” (niceno-costantinopolitano) perché, etimologicamente (syn-boulomai), è il punto di convergenza d’una fede comune a milioni d’individui, senza il quale essi sarebbero come atomi dispersi nello spazio e nel tempo e non potrebbero fare corpo comune, “corpo mistico”.

In effetti, le società antiche concepivano la religione, in quanto religio civilis, come la risorsa indispensabile per costruire quel triangolo che consente a un insieme numeroso d’individui di vivere insieme, in forma di società. Marco Terenzio Varrone, nelle sue Antiquitates (andate perdute, ma in parte conosciute attraverso la Città di Dio di Agostino d’Ippona, che polemizza con lui non sull’idea in sé, ma sulla primogenitura: se vengano logicamente prima le città o prima la divinità), notava che le città, le civitates, appena formate, anzi nell’atto stesso di formarsi, si dotano di propri dei, poiché solo con riferimento a loro può fondarsi il vincolo sociale e l’autorità che lo garantisce. Non conosciamo alcuna società antica senza propri dei e sappiamo che le guerre di allora (e spesso, ancora, le guerre di oggi) si fanno in loro nome, in nome dei diversi “terzi” che tengono insieme le rispettive società.

Le società del tempo presente, le società “secolarizzate” nelle quali la condizione di cittadino non corrisponde più a quella di appartenente a una religione e, tantomeno, a un’unica religione; le società nelle quali quindi la convivenza non può (più) fondarsi su un legame cementato dalla fede comune; le società nelle quali il fondamento in una religione ufficiale sarebbe, anzi, fattore non d’unione ma di divisione: in queste società la questione del terzo unificante non è affatto accantonata. Anzi, si pone con impellenza, soprattutto in presenza dei suoi presupposti costituzionali: la libertà e l’uguaglianza, i due pilastri delle concezioni politiche del nostro tempo. È superfluo dire come e perché queste due parole e i valori che sono loro connessi, lasciati liberi di operare fuori di un contesto societario, mettano in moto forze egoistiche che producono effetti distruttivi della con-vivenza. La libertà, intesa come situazione di assenza di limiti all’espansione della potenza individuale, introduce nella vita comune pulsioni egocentriche ed egoistiche rivolte all’auto-affermazione; l’uguaglianza, come aspirazione che fa da molla alla scalata sociale, produce e diffonde nella società rivalità e invidia; la libertà e l’uguaglianza, combinate insieme, scuotono le basi della vita sociale in quanto il loro effetto sia la liberazione di impulsi particolari, aggressivi e difensivi, non mediati da una visione di ciò che è bene e di ciò che è male per tutti: il contrario, dunque, dell’utopia di una società pacificata d’individui benevolmente e spontaneamente cooperanti in vista di scopi comuni. Le società basate sulla libertà e sull’uguaglianza – il che è quanto dire le odierne democrazie: combinazioni in dosi variabili di pretese di libertà e di aspirazioni all’uguaglianza – sono dunque esposte al rischio dell’interna divisione e dissoluzione per incapacità di garantire ciò, senza il quale nessuna società può sussistere: fiducia e cooperazione tra i suoi membri, in vista di un fine riconosciuto generalmente.

Per questo, possiamo stabilire questo primo punto: anche le società secolarizzate basate sulla condizione di libertà e sull’aspirazione all’uguaglianza non possono fare a meno di un qualche loro “terzo”, come garanzia di tenuta contro le tendenze all’auto-dissoluzione. L’idea di società costruite sull’incontro puramente orizzontale degli interessi in campo, senza quella triangolazione di cui si è detto, è un’idea falsa. Non si può vivere stabilmente insieme in grandi aggregati di esseri umani che nemmeno si conoscono facendo conto solo su patti degli uni con gli altri, come pensano i contrattualisti. A parte ogni considerazione realistica, una volta stabilita una regolazione contrattuale degli interessi in campo, a chi o a che cosa ci si potrebbe richiamare per richiedere l’adempimento degli obblighi assunti, ogni volta che l’interesse mutato spingesse qualcuna delle parti a violarli. Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe flatus vocis. Ricordiamo che uno dei padri del contrattualismo liberale, John Locke, negava il diritto alla tolleranza agli atei perché, non riconoscendo essi l’esistenza di un terzo (il terzo, allora, si pensava poter essere solo in cielo), a suo parere non davano garanzie di “stare ai patti”. In nome di chi, chiamato a testimone e garante, essi avrebbero potuto prestare impegnativamente il giuramento di osservarli?

C’è terzo e terzo. Non tutti i “terzi” sono uguali. Prendiamo ad esempio la Rivoluzione del 1789, un evento rivoluzionario precisamente perché rovesciava il fondamento del legame sociale, scalzandone i presupposti di natura teologica e ponendoli esclusivamente nella libertà e nell’uguaglianza dei singoli, entro un quadro di relazioni totalmente secolarizzate. L’ “allons enfants de la Patrie” della Marsigliese contiene già tutto: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants, dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo avere abbattuti quelli teologici dell’Antico Regime.

La fraternità viene così a prendere posto nella triade rivoluzionaria: liberté, égalité e, per l’appunto, fraternité. All’inizio, nel calore e nell’entusiasmo della Rivoluzione, i patrioti potevano effettivamente e spontaneamente sentirsi legati da un afflato fraternale, un afflato così forte da non ammettere deroga: fraternitè ou la mort per chi stava fuori della cerchia dei fratelli (gli estranei-nemici) o per chi ne fosse uscito (i traditori). Come tutto ciò che appartiene ai valori incontestabili e incontestati, anche la fraternità, che pure era luogo comune nei discorsi di quel tempo, non stava scritta nella Costituzione: non ne aveva bisogno, perché preesisteva (al contrario della libertà e dell’uguaglianza). Lo sarà solo nel 1848 quando i contorcimenti della società francese, investita dai drammi sociali dell’industrializzazione, ne fece avvertire la mancanza, anche per contrastare un concetto simile ma non uguale – la solidarietà – che faceva appello all’unità d’intenti non dei cittadini, ma della classe lavoratrice (“proletari di tutto il mondo, unitevi”).

Che cosa era la Patrie, all’inizio delle vicende rivoluzionarie? Era un ideale, un soggetto spirituale da costruire che chiamava alla cooperazione: convivenza per mezzo di co-operazione per un fine comune, la Patria (o la Nazione). Nel giro di pochi anni, tuttavia, il “terzo” cambiò faccia. Le vicende del “terzo” nella Rivoluzione in Francia sono paradigmatiche. Potremmo, se ce ne fosse la possibilità, verificarne le similitudini con altre, analoghe situazioni storiche, in cui all’afflato iniziale che parte dal basso si sostituisce l’imposizione che procede dall’alto. È la storia di molte “rivoluzioni” di destra, nelle quali quelli che erano i fratelli della rivoluzione individualista dell’89 diventano “camerati”, e di sinistra, dove diventano “compagni”. Esse sono nate promettendo liberazioni e si sono risolte in oppressione. Il “terzo” e le sue possibili facce hanno molto a che vedere con questi rovesciamenti.

Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-4, il “terzo” cambia natura, si cristallizza, l’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea ragione, con i suoi templi, spesso le chiese sconsacrate e profanate, i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, sotto la regia di Jean Louis David, nell’occasione bruciando manichini simboleggianti l’ateismo, l’ambizione, la discordia e l’ipocrisia: tutti vizi considerati insidie mortali della nuova società. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava la risurrezione in altra forma, per tenere insieme una società che si stava disintegrando. In occasione dell’approvazione del decreto del 7 maggio, Robespierre stesso aveva dichiarato: “L’athéisme est immoral et aristocratique ; l’idée de l’être suprême et de l’immortalité de l’âme est un rappel continuel à la justice ; elle est donc sociale et républicaine”. Quella cerimonia, ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto poteva giustificare. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo entrava in vigore la Legge di pratile (10 giugno 1794), la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome di ciò che Robespierre stesso aveva definito il “dispotismo della libertà”.

Che cosa mostrano queste vicende?

Innanzitutto, che con-vivere non si può senza un principio unificatore – il terzo – su cui convergano le esistenze singole: un principio nel riconoscimento del quale ciascuna esistenza si auto-comprende come parte d’una vicenda comune; un principio che, essendo comune, non è di nessuno in particolare. In assenza, libertà e uguaglianza sono destinate ad aprire la strada al dispotismo.

In secondo luogo, mostrano che il terzo può presentarsi come il prodotto d’un movimento ascendente, cooperativo, liberatorio, com’è il caso della Patria; oppure, come l’imposizione d’un potere discendente, autoritario, oppressivo, com’è il caso dell’Essere supremo. Quest’ambiguità non deve sorprendere. I concetti politici, per lo più o forse sempre, sono reversibili. Il loro significato dipende da che parte li si guarda: se ex parte societatis, oppure ex parte potestatis. Spesso nascono a partire dalla società e poi, presto, si trasformano in strumenti di oppressione sulla società. La Rivoluzione francese è solo un esempio.
Non c’è bisogno di dire che, nelle società democratiche, l’unico modo di concepire il principio unificante della vita sociale – cioè la loro dimensione terza – è il primo. Ma se, questo principio, se non dobbiamo, né possiamo attenderlo dal potere, né nella versione laica, né in quella religiosa, dove dobbiamo cercarlo? Dobbiamo cercarlo nella cultura. Solo nella cultura possiamo trovare ciò di cui, anche le società secolarizzate, hanno bisogno per non disperdersi sotto l’azione disgregante della libertà e dell’aspirazione all’uguaglianza. La Patria di cui parlava la Rivoluzione non era che una nozione culturale, il prodotto di tanti convergenti ideali, aspirazioni, speranze.

Così, siamo giunti al punto centrale di questa esposizione.

Democrazia e cultura. Tra i tanti significati della cultura, qui interessa quello che più da vicino ha a che vedere con il significato etimologico della parola. Si “coltiva” un ambiente quando si mettono a frutto le sue potenzialità nel rispetto dell’equilibrio dei suoi fattori. Può trattarsi di un ambiente naturale che si mette a coltura, oppure un ambiente umano che si modella con la cultura. Quali siano i fattori della cultura di una società è oggetto della cosiddetta antropologia culturale: si tratta di esperienze del più vario genere (artistiche, ideali, ideologiche, filosofiche, religiose, storiche, eccetera), in quanto siano interiorizzate come elementi di autocomprensione del proprio essere una specifica  società, “quella società”. La cultura d’un popolo, per così dire, sintetizza e idealizza ciò che esso è e vuole essere: è una descrizione (ciò che è) e una prescrizione (ciò che vuole essere).

Si tende, più o meno inconsciamente, ad assegnare alla cultura un posto separato dalle altre esperienze umane, ponendo la prima, prerogativa degli “uomini di cultura”, gli “intellettuali”, in alto e le seconde in basso. Ma si tratta d’una visione parziale, castale, “sacerdotale”, che poteva valere un tempo, ma non vale più oggi. L’attività culturale o intellettuale, in misura maggiore o minore, è di tutti purché non si sia bestie e si sia capaci di auto-riflessione sul senso sociale delle nostre esperienze quotidiane. Tra il “gorilla ammaestrato” applicato alla catena di montaggio, cui si chiedono solo sforzi muscolari esecutivi di protocolli da altri prestabiliti, oppure le persone totalmente plasmate dalle mode cui si assoggettano integralmente rinunciando a essere se stessi, da un lato, e, dall’altro, la “materia cerebrale” chiusa in pensatoi che “pensa pensieri”, dedicandosi a elaborazione intellettuale totalmente astratte (due aberrazioni, da posizioni opposte negatrici di socialità), c’è lo spazio per molte gradazioni. C’è una cultura accademica, ma anche una cultura contadina, operaia, come ci ricordano, senza andare troppo lontano, scrittori come Nuto Revelli e Primo Levi. Dunque, non è questione di separazione, di mandarini, d’iniziati, di sacerdoti del pensiero e cose di questo genere, anche se è pur vero che, nell’organizzazione delle nostre società, vi è chi è chiamato a svolgere prevalentemente, in misura maggiore di altri, perfino in misura esclusiva, funzioni culturali, cioè a riflettere sul valore culturale delle esperienze sociali.

In ogni società, esistono categorie di persone specificamente chiamate a svolgere funzioni intellettuali, accanto a funzioni d’altro genere, e, come ogni altra funzione, anche questa comporta una responsabilità nei confronti della società tutt’intera. Così è anche per la funzione culturale. Nelle società libere, la misura della responsabilità nel campo delle attività intellettuali è rimessa, per l’appunto, alla libertà di coloro che la esercitano; sono essi stessi, per dir così, i responsabili della loro responsabilità. Perciò, sono più, non meno, responsabili. I prodotti dell’intelletto sono di sostanza immateriale, sono idee, e le idee sembrano di per sé innocue. E così vediamo quanto sia diffuso il “tipo” di intellettuale leggero di testa, ballerino, esposto ai quattro venti, anzi alla ricerca del vento che lo gratifica di più. Invece, proprio la funzione intellettuale è quella meno innocua, poiché da essa dipende la cultura, cioè la tenuta della società come tale: s’è detto, la società com’è e come vuole essere. La tragedia degli intellettuali è la noncuranza per l’integrità della loro funzione, cioè la disponibilità a metterla al servizio del capriccio e dell’interesse, proprio e altrui.

Nelle società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di politica dei politici.

La cultura ha una funzione politica, dunque. C’è, anzi ci deve essere una “politica della cultura”, ma non ci deve essere una “politica culturale” guidata dalla politica e orientata e pianificata per i suoi scopi. Sono stati ideologici totalitari, quelli in cui la funzione culturale è assunta come propria dallo Stato, cioè dai poteri politici che si esprimono attraverso le sue strutture di quello. In quanto funzione sociale, nella cultura in generale hanno diritto di esprimersi tutte le culture particolari. La prima è il risultato dell’incontro, del conflitto e perfino dello scontro tra le seconde. Tanto più vitale è una società, tanto più è polifonica la sua cultura. Ciò non significa dissolvimento, ma arricchimento. Ma, a una condizione: che vi sia confronto o, come si dice oggi, dialogo. Su questo punto e sulle condizioni che rendono il confronto onesto, utile e alla fine produttivo di cultura comune è superfluo dire parola, se non, innanzitutto, per richiamarne le difficoltà e denunciarne la pochezza e l’inconcludenza, nel nostro tempo e nel nostro Paese; poi, per ricordarne la necessità, soprattutto in un momento della nostra vita, quando la società in cui viviamo è sempre più “multiculturale” e richiede una “sopra-cultura” della convivenza tra culture. Non è pericoloso il confronto, anche quello più aspro, poiché esso esprime comunque una cultura, la cultura del confronto. È pericolosa, piuttosto, l’assenza del confronto, la mancanza d’idee, la rinuncia a difenderle, l’ignavia nelle cose sociali: possono apparire concordanza e armonia, e quindi saldezza, e sono invece essere difetto di cultura, e quindi debolezza, ambiente di coltura di intolleranza e violenza.

Il posto della cultura. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura. Ancora una volta siamo alle prese con l’onnipervasivo numero tre. Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. Questa struttura tri-funzionale è stata indagata nei minimi e più vari dettagli nell’opera di George Dumézil. Qui, possiamo rappresentarla ricorrendo, come a un sigillo, al racconto delle tre tentazioni del Cristo nel deserto, secondo il racconto di Matteo (4, 1-11) e Luca (4, 1-13): le tentazioni del pane, del mistero e del potere. Un racconto davvero fondativo dell’autocoscienza delle nostre società, a proposito del quale, nel monologo del Grande Inquisitore di Dostoevskij, è detto che nelle tre domande poste al Cristo dal penetrante spirito del deserto “è come riassunta in blocco e predetta tutta la futura storia dell’umanità, e son rivelate le tre forme tipiche in cui verranno a calarsi tutte le irriducibili contraddizioni storiche della natura umana sulla terra”. Le “tre forme tipiche” sono probabilmente sintesi di storie e concezioni risalenti, assai diffuse nella nostra area culturale, se perfino il Budda, secondo un’antica tradizione, fu sottoposto, all’inizio della sua missione, a un’analoga tentazione triadica (G. Dumézil, Le Bouddha hésitant ou tenté, in Esquisses de mythologie, Paris, Gallimard, 2003, pp. 312 ss.). Le tentazioni di Gesù di Nazareth s’inseriscono dunque in un quadro storico-culturale ben definito. Il Cristo deve rifiutare l’offerta di tutte e tre le tentazioni. Se le accettasse – una, due o tre – si confonderebbe col mondo e la missione sua sarebbe così annientata in un progetto politico, in una ideologia sociale o in programma di beneficenza pubblica. Egli è venuto per annunciare un “regno” in cui ogni divisione sarà ricomposta nella nuova Gerusalemme che ha preannunciato. Per noi, invece, dovendoci accontentare di queste nostre povere città di esseri umani, quelle che per il Cristo erano tentazioni sono necessità e, per questo, dobbiamo accettarle e imparare a convivere con loro, poiché su di esse si basa la vita sociale.

In effetti, la nostra storia è segnata da questa tripartizione. Ad esempio, per non risalire al mondo classico, greco e romano, o ancora più indietro alle civiltà pre-classiche, il Medioevo cristiano ha rappresentato la società in modo rigidamente tripartito, come proiezione naturale del modello trinitario divino, e l’ha divisa in ceti, dediti, ciascuno, a una funzione sociale: i laboratores, i bellatores e gli oratores, espressioni che si riportano facilmente all’anzidetta concezione tri-funzionale della società. Ancora alle soglie della Rivoluzione francese, i tre “stati”, rappresentati separatamente presso il re, erano ancora una volta la proiezione, l’uno, della funzione bellica e di governo; l’altro, della funzione etico-culturale, fino ad allora egemonizzata dalla Chiesa; l’ultimo, il terzo stato, infine, del ceto dei produttori. E anche la dottrina costituzionale della divisione dei poteri, quando non era ancora concepita, a differenza di oggi, come mera tecnica di organizzazione di un unico potere, il potere dello Stato, aveva alla sua base l’assunto dell’esistenza delle tre distinte funzioni sociali, di cui doveva essere la proiezione. Ancora le costituzioni ottocentesche della Restaurazione, reincarnazioni del cosiddetto ‘governo misto’, conferivano le tre funzioni rispettivamente al re e alla sua corte, al senato cui spettavano non solo funzioni moderatrici ma anche giudiziarie, e alla camera elettiva, rappresentativa dei ceti produttivi.

Sono queste, idee da museo delle antichità? Tutt’altro. Il filosofo politico Michael Walzer, nel suo volume Sfere di giustizia (1987), pur senza riferirsi alla dottrina europea delle tre funzioni sociali, vi è arrivato assai vicino, riformulandola a suo modo. Alla ricerca della regola della giustizia distributiva (“a ciascuno il suo”), si sostiene la necessità di criteri multipli, alla stregua del significato sociale dei beni che hanno da essere distribuiti, beni appartenenti a “sfere di giustizia” distinte e non sovrapponibili. Ciò che è giusto cercare in una sfera è diverso da ciò che si può cercare in un’altra. Il successo in una non deve servire per il successo in un’altra. Così, l’affermazione nella sfera dell’economia non deve usata strumentalmente per affermarsi nel campo della politica o in quello della cultura; l’affermazione nella sfera politica non deve essere il ponte per conquistare posizioni di potere nella sfera economica o in quella culturale; l’attività nella sfera culturale non deve corrompersi in vista di carriere e benefici che possono provenire dalla politica o dall’economia. La società giusta sarebbe così quella in cui si rispetta la distinzione delle sfere, cioè delle funzioni sociali, non consentendosi a una di inquinare i criteri di giustizia che devono valere nelle altre due. Diremmo forse bene ordinata una società in cui chi controlla l’economia s’impadronisce della politica e, impadronitosi della politica, controlla la cultura e, controllando la cultura, alimenta l’economia, orientando i gusti, le mode e quindi i consumi, e poi, dall’economia alla politica e dalla politica alla cultura, in un circolo chiuso del potere in cui ciascun elemento ne alimenta un altro e ne è, a sua volta alimentato? Se diciamo no: non è bene ordinata quella società, è perché quella plurimillenaria concezione delle tre funzioni sociali non appartiene affatto all’antiquariato filosofico-politico. Del resto, quando parliamo di “conflitto d’interessi” non intendiamo precisamente riferirci a quella tripartizione e all’esigenza di evitare le sovrapposizioni e le confusioni?

La dottrina delle tre funzioni deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.

La caduta delle barriere rigide, che è un portato della democrazia, a sua volta conseguenza di libertà e uguaglianza, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica, e quando si dedica, a una essa, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare e che la confusione dei comportamenti determini situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte. Le incompatibilità o i conflitti d’interesse cui si è or ora fatto cenno, sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali. D’altra parte, non è forse questo uno dei temi dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbero attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?

Insidie e tradimenti. La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così
dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.

C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “Stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono “Stati di economia”, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità. Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza una legittimazione nella sfera della cultura. Ma, quale cultura? Poiché, però, la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che segue pedissequamente moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito che s’è detto dover essere di “terzo” unificatore. Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi?

Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. E non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica. Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non deve essere concepito come appannaggio di partiti, in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro mettere in opera.  Ma, devono essere anche immuni dagli interessi commerciali. Possono, certamente, procurare e produrre danaro. La cultura – per parafrasare un’espressione triviale – non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, ciò deve essere, per così dire, una conseguenza, o un effetto collaterale, non l’obiettivo primario che prevalga sul rispetto della cultura. La quale non esiste primariamente per dar da mangiare, bensì per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva.

Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici, come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico-esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei corsi dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento).

Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia. Il nostro mondo è sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Questa – del consigliere – è la versione odierna dell’ “intellettuale organico” gramsciano, una figura tragica che si collegava alle grandi forze storiche della società per la conquista della “egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso; i consiglieri di oggi sono gli imboscati nell’inesauribile miniera di ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, ecc., che si legano al piccolo o grande potente, offrendo i propri servigi intellettuali e ricevendo in cambio protezione, favori, emolumenti. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che vendono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma lo sono quando sono essi stessi che si offrono, si danno da fare, per diventare tali, e per questo, inevitabilmente, accettano di entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudersi d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzare le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.

La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.

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