Zagrebelsky: “Perché è in pericolo la libertà d’informazione”

22 Ott 2012

Il ddl pensato per evitare il carcere al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, si sta rivelando un attacco alla libertà di stampa. Francesco Merlo, domenica 21 ottobre, aveva già denunciato il pericolo dell’operazione bipartisan condotta da Pd e Pdl. Gustavo Zagrebelsky interviene sull’argomento.

— «Neppure il fascismo aveva previsto una disciplina del genere. Il codice penale prevede lo schermo del direttore responsabile e tutto, da allora, è riconducibile a quella figura. Nel momento in cui però si estende la responsabilità all’editore, allora il sistema di garanzie e di diritti, il delicato equilibrio che è alla base del diritto di informare e di essere informati rischia di essere compromesso». Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nutre più di una perplessità sul testo che corre spedito in commissione al Senato e che rischia di trasformarsi in una nuova edizione della legge-bavaglio. E sono tanti i nodi da passare al setaccio.
Tutto parte dal caso Sallusti, Professore. Dal direttore del «Giornale» che rischia la galera per un articolo diffamatorio.
«Lasciamo da parte per un momento la libertà di stampa con la «L» maiuscola. Parliamo del caso specifico. La pena detentiva è prevista dalla legge penale e il problema dell’adeguatezza della pena è annoso, non nuovo. Va detto, però, che nel caso dell’articolo in questione non si tratta di opinioni, ma dell’attribuzione di fatti determinati risultati palesemente falsi. Il reato consiste nell’omessa vigilanza circa un fatto che non riguarda la libertà di opinione. Si può discutere se il carcere sia la misura più appropriata».
Ecco appunto, lo è?
«Siamo di fronte a una valutazione politica, di opportunità: stabilire se il carcere è adeguato, proporzionato o utile. La mia risposta è no. Il carcere non è adeguato. In questo, come in tanti altri casi, non è la misura opportuna. Sulla qualità delle pene adeguate a un paese civile si discute da tempo e poco o nulla è stato fatto. Il carcere, come misura normale, è un fatto d’inciviltà. Discutiamo di questo».
Quali sarebbero le sanzioni adeguate, secondo lei?
«Innanzitutto, quella pecuniaria, come risarcimento del danno morale derivante dalla lesione dell’onorabilità delle persone: un bene importantissimo, quasi un bene sommo. Poi, l’intervento degli ordini professionali, cui spetta la tutela della deontologia, a tutela dell’onorabilità della professione. A me pare che le misure interdittive dell’esercizio della professione siano coerenti con questa esigenza. Poi, occorrerebbe prevedere forme processuali particolarmente
celeri, processi immediati. Il diffamato che cosa se ne fa d’una sentenza che interviene dopo anni? Ciò che occorre è il ripristino dell’onore della persona offesa».
Il problema, nella legge in questione, è che l’alternativa al carcere è una sanzione pecuniaria talmente pesante da trasformarsi in un bavaglio per la stampa.
«La questione vera e grande, al di là del folclore di molti emendamenti, è la chiamata in causa dell’editore. Nel momento in cui si estende la responsabilità al proprietario dell’impresa editoriale, è chiaro che questi farebbe di tutto per prevenirla e ciò gli darebbe il diritto d’intervenire nella gestione
dell’impresa giornalistica, un’impresa molto particolare, nella quale la libertà della redazione
deve essere preservata dall’intervento diretto della proprietà, cioè del potere economico. L’autonomia dell’informazione, come libera funzione, è messa in pericolo da una norma di questo genere».
Se è per questo, l’editore rischia di perdere anche i contributi pubblici, in caso di condanna.
«È una previsione che, colpendo l’editore, mette a repentaglio, oltre all’azienda, anche il patto che per consuetudine viene stipulato, almeno tacitamente, tra impresa, direttore e giornalisti: la copertura finanziaria da parte dell’editore delle eventuali condanne pecuniarie dei giornalisti che operano nella sua impresa ».
Diventa un’aggravante la circostanza che a firmare un articolo, ritenuto diffamatorio, siano ad esempio tre giornalisti. Siamo all’associazione a delinquere informativa?
«Quanto emerge da proposte di questo tenore è l’insofferenza che parti del mondo politico, indipendentemente dal colore, nutrono nei confronti del giornalismo di inchiesta che è un’attività che non si può svolgere da soli».
Le sue critiche si riferiscono anche all’ipotesi di sospensione del giornalista fino a tre anni, in casi estremi di recidiva nella diffamazione?
«No. Su questo sarei favorevole. Se la diffamazione è provata come fatto doloso, allora è giusta la sanzione proporzionata alla gravità dell’offesa. Per un cittadino, essere colpito nella propria onorabilità è un fatto grave, che può segnare pesantemente una vita, soprattutto delle persone per bene. Agli altri, per definizione, non importa nulla. Oggi, sembra che l’onore delle persone non conti più quasi nulla. Si tratta di ripristinare, innanzitutto nella coscienza civile, l’idea che l’onore, il rispetto, la dignità sono beni primari e la legge deve operare a questo fine. Certo, ci deve essere la prova del dolo, della macchinazione voluta per distruggere moralmente una persona. Stiamo parlando di ciò che voi giornalisti avete chiamato la “macchina del fango”. E non può essere tollerata, lasciata operare senza freni. È cosa deplorata ma, di fatto, tollerata come arma da usare nella polemica politica, nella lotta per il potere. Va contrastata con ogni mezzo, anche con sanzioni molto pesanti».
La nuova disciplina rende più grave la sanzione se l’offeso è «un corpo politico, amministrativo o giudiziario », per stare ai termini della legge. La “casta” da tutelare più degli altri?
«Esistono dei reati che riguardano la tutela dell’onorabilità delle istituzioni. E questa è una cosa. Un’altra cosa sono gli uomini e le donne che operano nelle istituzioni. Questi non sono essi stessi istituzioni. Sono normali cittadini che, pro tempore, svolgono funzioni pubbliche. Bisogna distinguere. In passato, erano previste forme di tutela speciale contro l’oltraggio al pubblico ufficiale, punito in misura più severa di quanto lo fosse l’offesa arrecata al cittadino comune, ma la Corte costituzionale in tempi lontani ha fatto venire meno questa differenza. Il principio di uguaglianza deve valere per tutti e coloro che occupano posti nelle istituzioni non devono essere considerati più uguali degli altri».

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