Arriva la legge-vendetta per salvare Sallusti, un bavaglio alla stampa

22 Ott 2012

CHI volete voi, Sallusti libero e la stampa asservita o Sallusti in galera e la stampa libera? Povero Sallusti. L’idea peggiore in suo nome e la più devastante per la libertà l’ha avuta il senatore Nino Caruso, avvocato. Caruso propone, in caso di diffamazione aggravata, che l’editore oltre a pagare, come è giusto, i danni, debba pagare anche «500 quote». Dice la legge che «l’importo di una quota va da un minimo di 250 euro ad un massimo di mille e cinquecento euro». MOLTIPLICATE per 500 e capirete la protervia del senatore Caruso. Ma non finisce qua. Con la norma Caruso l’editore deve anche predisporre «un piano di sicurezza» per impedire la diffamazione. E come, se non intervenendo in redazione, frugando cioè nei miei cassetti e nel mio computer? E il direttore che glielo impedisse — facendo quel che oggi è suo dovere — e fosse poi condannato dovrebbe essere licenziato, aggiunge nella furia Caruso, «per giusta causa».
Povero Sallusti. Peggio della galera. Hanno infatti dato il suo nome alla leggevendetta contro la stampa che dopodomani pomeriggio sarà licenziata dalla commissione Giustizia del Senato e arriverà «blindata» in aula. Il testo finale di questa legge-Sallusti (al suo posto querelerei il legislatore) non è ancora pronto, e le vie della provvidenza e del ravvedimento sono infinite. Ma questi senatori, ovviamente di destra “ma anche”, direbbe Crozza-Veltroni, di sinistra, stanno articolando i loro rancori contro «quelle pistole puntate su di noi che sono i giornali» in commi, capitoli ed emendamenti ringhiosi, quasi tutti furiosi, una specie di tiro al cronista-piccione: colpire al cuore della stampa con la scusa di salvare Sallusti, non più abbatterne uno per educarne cento ma molto più raffinatamente liberarne uno per abbatterne cento.
E anche il dibattito, che sarebbe bello ascoltare per intero, è stato surreale. È stata evocata, per dire, «la morte del commissario Calabresi ucciso da un giornale», e «la cacciata del presidente Giovanni Leone ad opera della giornalista Camilla Cederna» che sono ormai episodi di storia antica. E il
senatore Gerardo D’Ambrosio, non uno scatenato pdl qualsiasi, ma il pubblico ministero del caso Pinelli — «malore attivo» ricordate? — che divenne poi eroe di mani pulite, pretende, in linea con Caruso, che in caso di diffamazione, dopo aver pagato la multa l’editore restituisca al governo parte del contributo pubblico eventualmente ricevuto. Ora, si può e forse si deve proporre l’abolizione del finanziamento che lo Stato versa ad alcuni giornali, ma che c’entra con la diffamazione? Così è un raddoppio di pena, è un taglieggiamento.
E D’Ambrosio legittima, in questo modo, anche il senatore Giacomo Caliendo, un altro magistrato, ma del Pdl, che fu indagato come appartenente alla P3. Benché il caso sia stato archiviato, qualche rancore verso i giornali Caliendo ce l’ha. Propone anche lui di portare l’editore in redazione e metterlo contro i giornalisti perché lo libera addirittura dalle clausole contrattuali che lo impegnano a pagare le pene pecuniarie derivanti dalle condanne: «le clausole sono annullate». E se poi l’editore vuole pagare lo stesso e non abbandonare il giornalista ad un futuro di ipoteche, ebbene
peggio per lui: grazie all’emendamento D’Ambrosio dovrà restituire anche
i contributi. Tié.
È nata su ispirazione del capo dello Stato questa disgraziata legge che sarebbe meglio per tutti abbandonare subito lasciando le cose come stanno. Napolitano ha benedetto l’avvio dell’iter legislativo perché non gli sarebbe facile graziare Alessandro Sallusti che è così evidentemente colpevole, e senza la nobiltà di avere mai chiesto scusa. L’editoriale diffamatorio che lo porterà in galera è stato sì scritto da Renato Farina, velato e svelato dallo pseudonimo Dreyfus, ma è stato sicuramente concordato, vista l’importanza e vista la nota cifra faziosa dell’autore, con la direzione del giornale. E inoltre Sallusti è direttore ancora in carica di un giornale diciamo così controverso per le campagne che ha condotto nel nome di Berlusconi, alla cui famiglia appartiene.
Il paradosso Sallusti è che la galera, nella sua abnormità penale, mette in ombra il delitto, fa dimenticare la diffamazione, lo ripulisce e lo trasfigura innocente. Come può un paese moderno e civile sopportare che un direttore vada in galera per omesso controllo? Ma come può il presidente Napolitano graziare un mestatore incallito, che pure non sempre è nel torto, come nel caso dell’appartamento di Fini-Tulliani a Montecarlo?
Per sciogliere il nodo, nasce dunque la legge che mette insieme due politici che mai più si ritroveranno insieme: Vannino Chiti del Pd e Maurizio Gasparri del Pdl. Ed
è Gasparri che scrive il testo, tutto in una notte. Poi, nella relazione, candidamente confessa che sarà un legge per Sallusti, una legge cioè ad personam che in Italia è ormai una delle peggiori volgarità del Diritto.
Ma basta guardare le carte, leggere la montagna di emendamenti per capire che la galera di Sallusti è il pretesto per dare corpus legi ai rancori della politica. Anche se non ti aspetti che il rancore sia così bipartisan. Il senatore Felice Casson, per esempio, un altro magistrato, anche lui di sinistra, pretende come pena accessoria obbligatoria e non più facoltativa che il giornalista diffamatore recidivo sia interdetto, insomma non possa più scrivere, da uno a tre anni. Quasi come il senatore Lucio Malan che però è scatenato e dunque immagina un’interdizione perpetua.
Di Lucio Malan, fotografato mentre faceva il pianista con tutte e due le mani in apparati di voto, si ricordano furiose lettere di smentita. Un giorno lanciò il libro del regolamento contro il presidente Marini. Espulso, per otto ore rifiutò di lasciare l’aula. Persino Wikipedia racconta che il Venerdì di Repubblica scrisse che aveva assunto la moglie come segretaria particolare e Il Fatto Quotidiano aggiunse che aveva «contrattualizzato presso la sua segreteria anche la nipote». Più allegro il rapporto di Casson con i giornali. Quando era magistrato ottenne risarcimenti record. E si racconta la storia di due Mercedes che il senatore chiamava “Montanelli 1” e “Montanelli 2” perché comprate con i risarcimenti di Indro.
Ovviamente bisogna sapere distinguere. A volte il rancore può essere giustificato. Ma è sicuro che i rancorosi produrranno comunque solo norme rabbiose, il contrario dell’equilibrio della legge. Troppi politici hanno il dente avvelenato contro i giornalisti. È come se la legge sui medici fosse affidata a una commissione di pazienti.
Qui poi la rabbia è così scoperta che fa persino sorridere la giostra di multe, interdizioni, sospensioni, rettifiche… I senatori dell’Italia dei valori sembrano protagonisti di una comica. Ligotti, Pardi, Belisario e Patrizia Bugnano chiedono infatti che la rettifica «da pubblicare nella sua interezza e senza commenti sia lunga il doppio dell’articolo che l’ha provocata». Belisario, che è avvocato, aggiunge che se il giornale si ostina a pubblicare lo scritto di un giornalista interdetto, ebbene bisogna chiudere il giornale, sospenderlo. Pancho Pardi e Alberto Maritati (Pd) vogliono che la rettifica sia pubblicata sempre in prima pagina occupando almeno il 20 per cento dello spazio. Sì «ma per sette giorni consecutivi» aggiungono Li Gotti, lo stesso Pardi, Belisario e Bugnano.
E il senatore Coronella, ex An, propone che «al primo comma dell’art.7 del Dpr 1957 n 361 siano soppresse le lettere a) e b)». Con il linguaggio delle caverne della furbizia chiede l’abolizione dell’ineleggibilità dei presidenti della Provincia. Non c’entra nulla con la stampa ma lo svelto Coronella spera nella foga: «La commissione approva».
Sallusti non deve prendersela, ma è molto meglio leggere le sue lettere dal carcere che finire in queste mani di forbice. La legge com’è ha una sua saggezza, nonostante la galera che in fondo è stata comminata soltanto tre volte, in tre casi-limite: Guareschi,
Jannuzzi e appunto Sallusti. Certo, abolire la pena detentiva sarebbe un atto di civiltà, ma non così, non legiferando sul rancore, in emergenza e ad personam.
Anche perché l’esistenza della pena detentiva oggi garantisce l’udienza preliminare che protegge la giustizia dalla querelomania. Oltre al filtro della procura c’è infatti quello del gup che, se è il caso, proscioglie. Senza l’udienza preliminare invece si andrebbe comunque al dibattimento e il giudice potrebbe pure essere non togato (Got si chiama), come i giudici di pace.
Come finira? Se il Senato martedì sera approvasse la nuova legge, il governo potrebbe intervenire subito e anticipare, prima che la Camera deliberi, l’abolizione della pena e salvare Sallusti dalla galera. Ma io ripeto la domanda: chi volete voi, Sallusti libero e la stampa asservita o Sallusti in galera e la stampa libera? Nessun Pilato può lavarsene le mani. Pensate che un emendamento stabilisce che se il diffamato è un politico la pena viene quintuplicata. Ecco: l’onore di un politico varrebbe cinque volte l’onore tuo, fratello lettore.

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