La destra dello scandalo

24 Set 2012

Che cosa dobbiamo pensare di un Parlamento incapace di varare una seria legge anticorruzione? Che possiamo sperare da partiti che non ci garantiscono liste pulite, principio elementare di moralità politica?

E’ uno dei più grandi scandali. Abuso e sperpero del denaro pubblico. Con voracità, arroganza, cattivo gusto. Le nefandezze della nuova destra, al governo della Regione Lazio, danno credito al vecchio detto popolare secondo cui la realtà è destinata spesso a superare la fantasia. Altrove, in altri paesi europei, sarebbero già bastate le foto delle trucide serate in costume al Foro Italico per provocare dimissioni a catena. Come conseguenza obbligata di un fatto che mette in discussione le istituzioni. Ma da noi i partiti sono allergici a queste scelte. Abbiamo la prova che i fondi pubblici vengono utilizzati come proprietà privata. Eppure, la maggioranza cerca di restare asserragliata nel proprio bunker. La governatrice, Renata Polverini, ha fatto ricorso alle solite sceneggiate. Il famoso “teatrino della politica”. Le cui regole sono imposte da Berlusconi in persona: “resistere”, per evitare che lo scandalo del Lazio possa inghiottire il Pdl. Per il mondo berlusconiano l’impunità è la regola. Ma è difficile evitare l’epilogo naturale di questa tragicommedia.

Il Lazio è un vero disastro. Però, il verminaio non è solo a Roma e dintorni. Lo scandalo tracima. Dalla Lombardia alla Sicilia. L’assalto alla diligenza è pratica comune, come confermano le diverse inchieste in corso. I faraonici fondi destinati ai gruppi politici vengono dirottati su conti personali. Oppure utilizzati per ostriche, champagne, week-end, alloggi in affitto. Sono cifre da capogiro quelle del Laziogate. In una regione che ha accumulato dieci milioni di debiti per la sola sanità. Dove si rischia di morire abbandonati nelle corsie. Dove tutti i pronti soccorsi sono allo stremo, e chi entra al Fatebenefratelli, un ospedale storico della capitale, è accolto, come racconta Mario Pirani su Repubblica, da questa scritta:”Siete pregati di essere molto pazienti perché anche questo mese non pagano lo stipendio”.

Dinanzi al dilagare degli scandali vanno in crisi molte speranze. Come quelle alimentate intorno al federalismo. Si era pensato che il decentramento, il “rapporto col territorio”, avrebbe reso il controllo dei cittadini più vicino e diretto. Al contrario: la moltiplicazione dei poteri locali è diventata moltiplicazione degli sprechi, delle corruzioni piccole e grandi, delle ruberie. Stiamo assistendo al trionfo di un personale pressappochista, del tutto indifferente alle buone regole, apertamente corrotto o, quanto meno, disinvolto nell’uso del denaro pubblico. Questo è lo stato delle cose. Ma ciò non vuol dire che si debba buttare via il bambino con l’acqua sporca. Che si possano dimenticare i danni provocati dallo Stato centralista. Bisogna piuttosto abbandonare certi dogmatismi, il più delle volte sbandierati in mala fede. Correggere gli inconvenienti di un sistema che delega alle regioni molti poteri in tema di spese, ma poco, se non addirittura nulla, impone in termini di controlli e di responsabilità.

Gli strumenti per cambiare ci sono: statuti rigorosi, vera riforma dei rimborsi elettorali, regole trasparenti di finanziamento, controlli di autorità esterne, e così seguitando. Ma le leggi non bastano. Ci vuole, soprattutto, una modifica profonda e radicale delle forze politiche che porti a una modifica altrettanto profonda e radicale  nella formazione e selezione del personale. E, a questo punto, purtroppo è difficile sottrarsi a un pessimismo nero. Che cosa dobbiamo pensare di un Parlamento incapace di varare una seria legge anticorruzione? Che possiamo sperare da partiti che non ci garantiscono liste pulite, principio elementare di moralità politica? Si era sostenuto che il sistema proporzionale e le preferenze erano il cancro della prima Repubblica. E ora, stando alle bozze di qualche riforma elettorale, si vorrebbero reintrodurre, appunto, il sistema proporzionale e le preferenze. Non c’è da meravigliarsi: non abbiamo forse abrogato a furor di popolo, con un referendum, il finanziamento pubblico dei partiti, per poi reintrodurlo? Cambiano le forme, ma resta la sostanza: una classe politica incapace di cambiare. Chi scrive non riesce a concepire la democrazia senza i partiti. Ma questi partiti, così come sono oggi, malgrado qualche eccezione, che messaggio ci danno? Come possono affrontare gli elettori senza aver risolto i problemi fin qui lungamente e inutilmente dibattuti? La crisi, inevitabilmente, è destinata ad alimentare la velenosa combinazione di demagogia e di populismo.

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