La lunga notte di una riforma

14 Set 2012

Michele Ainis

Possono soltanto estrarre dai cassetti l’unico modello già incartato: il Mattarellum . Anche perché dal 1994 al 2001 lo abbiamo usato per tre volte, senza eccessivi danni; l’anno scorso un referendum che intendeva riesumarlo raccolse un milione e 200 mila firme in pochi giorni. L’appello di LeG, “Mai più alle urne con questa legge”

La tela di Penelope si cuce di giorno, si disfa nottetempo. Ora è di nuovo notte, e nulla ci assicura che la legge elettorale vedrà mai le luci del mattino. I partiti di maggioranza ne avevano promesso il battesimo entro giugno, poi a luglio, poi a settembre; però anche questo mese sta volando via, come una rondine davanti ai primi freddi. E allora meglio prepararci al peggio, meglio attrezzarci per resistere all’inverno della democrazia italiana.

Perché è questa la stagione che ci attende, se i partiti ci costringeranno a votare per la terza volta col Porcellum . In assenza del popolo, ne prenderà le veci il populismo. Avremo due Camere amputate (nell’autorità, non nei posti a sedere: la riduzione dei parlamentari è l’ennesima promessa tradita dai politici). Questo Parlamento dimezzato ospiterà tuttavia un partito raddoppiato, grazie al superpremio di maggioranza: 55% dei seggi, quando attualmente nessuna forza politica supera il 25% dei consensi. Infine verrà delegittimato anche il prossimo capo dello Stato, eletto da un Parlamento ormai negletto.

C’è modo di sventare la sciagura? Uno soltanto: che sia il governo Monti, per decreto, a scrivere la nuova legge elettorale. Una soluzione disperata, ma di speranze ormai ne abbiamo poche. Sicché non resta che la dottrina del male minore, teorizzata da Spinoza come da Sant’Agostino. È un male scavalcare le assemblee legislative? Certo che sì, anche se alle Camere spetta pur sempre la conversione del decreto: e a quel punto niente più gioco del cerino, chi vi s’oppone ne risponde agli elettori. Ma è un male minore, giacché il male maggiore rimane la crisi democratica in cui siamo avvitati. Ed è un male evitabile: se gruppi di cittadini e di parlamentari sosterranno questa stessa soluzione; se l’esecutivo ne verrà corroborato per metterla poi nero su bianco; se i partiti, vista la malaparata, riusciranno infine a scongiurare la mossa del governo, siglando un testo condiviso. Talvolta una minaccia serve più di tanti bei sermoni.

Resta però una duplice obiezione: di forma e di sostanza. La prima chiama in causa l’ammissibilità dei decreti in materia elettorale, negata dall’art. 15 della legge n. 400 del 1988. Che tuttavia è una legge ordinaria, e dunque non può vincolare le leggi successive, né i decreti con forza di legge; tant’è che in questo campo non si contano i provvedimenti del governo, dalla disciplina delle campagne elettorali alle modalità di selezione delle candidature. Senza dire che ogni decreto legge si giustifica – Costituzione alla mano – in nome dell’emergenza, della necessità. Necessitas non habet legem , dicevano i latini: quando la società corre un pericolo, l’unica legge è la salvezza collettiva.

Già, ma spetta a un governo tecnico la più politica delle decisioni? Come potranno Monti e i suoi ministri scegliere fra maggioritario e proporzionale, fra collegi e preferenze? Difatti non possono, non devono. Possono soltanto estrarre dai cassetti l’unico modello già incartato: il Mattarellum . Anche perché dal 1994 al 2001 lo abbiamo usato per tre volte, senza eccessivi danni; l’anno scorso un referendum che intendeva riesumarlo raccolse un milione e 200 mila firme in pochi giorni; ed è la prima scelta per vari dirigenti di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, certo, si può fare di meglio. Anche di peggio, tuttavia. E in questo caso il peggio coincide col non fare.

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