Quello che la Legge non vede o vede troppo

11 Set 2012

C’è finalmente — ed è un merito del ministro Severino — la corruzione tra privati, che anche senza querela rende punibile il privato che in una azienda riceva una mazzetta da chi vuole essere favorito negli acquisti, appalti, forniture. La norma, però, continua a punire (come nell’infedeltà patrimoniale che va a sostituire) solo gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e contabili, lasciando fuori gli altri dipendenti e consulenti aziendali

«Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono gli investitori esteri» è l’argomento con il quale il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia, raccogliendo anche i ripetuti appelli del capo dello Stato, si stanno impegnando per superare le resistenze all’approvazione definitiva al Senato della legge anticorruzione votata dalla Camera con la «fiducia» al governo il 14 giugno. Ma l’argomento è a doppio taglio. L’Europa, infatti, con anni di richiami delle sue istituzioni al mancato recepimento italiano degli impegni assunti in Convenzioni internazionali, non ci chiede una legge «qualunque», da approvare tanto per poter dire di averla fatta, ma una legge efficace. E quella votata alla Camera, pur essendo un passo avanti, non lo è ancora: per qualcosa che continua a mancare, e per qualcosa che c’è ma solo come un bel fiocco.
C’è finalmente — ed è un merito del ministro Severino — la corruzione tra privati, che anche senza querela rende punibile il privato che in una azienda riceva una mazzetta da chi vuole essere favorito negli acquisti, appalti, forniture. La norma, però, continua a punire (come nell’infedeltà patrimoniale che va a sostituire) solo gli amministratori, i sindaci, i direttori generali e contabili, lasciando fuori gli altri dipendenti e consulenti aziendali. Inoltre continua a far dipendere il reato dall’esistenza di un danno arrecato all’azienda, quando invece da una parte è ben possibile che essa tragga un profitto, e dall’altra i soggetti danneggiati dalla corruzione privata sono piuttosto il mercato stravolto, la concorrenza alterata, i consumatori tartassati. Certo non li tutelerà la pena se, come nell’attuale testo, sarà solo da 1 a 3 anni, tale cioè da non consentire nè intercettazioni (per le quali la pena massima deve essere almeno 5 anni) nè misure cautelari.
Buona cosa è in teoria anche l’introduzione del reato di traffico di influenze illecite che punisce chi, «avvalendosi di relazioni esistenti con un pubblico ufficiale, indebitamente fa dare o promettere denaro o altra utilità, a sé o ad altri, come prezzo della propria mediazione o per remunerare il pubblico ufficiale». Solo che la norma per un verso punisce “troppo poco” i faccendieri veri, giacché la pena da 1 a 3 anni tarpa anche qui strumenti incisivi di indagine e diventa addirittura contraddittoria rispetto a quella più alta (fino a 5 anni) per chi millanta; e per un altro verso, per come è scritta, rischia di sanzionare “troppo”, cioè di far rientrare nell’alveo del punibile anche l’attività di chi per lavoro viene lecitamente retribuito da un privato per tenere altrettanto legittimamente i rapporti con la pubblica amministrazione su autorizzazioni e licenze.
Ma ancor più di quanto andrebbe perfezionato, nella legge risalta ciò che le manca benché quell’Europa tanto invocata lo reclami a gran a voce. Come il reato di autoriciclaggio, che solo in Italia continua a non punire chi reinveste da solo (senza ricorrere a terzi) i proventi dei propri reati. E, soprattutto, una generale revisione della disciplina della prescrizione dei reati, di cui proprio la Corte europea — come ricordato ormai 9 mesi fa dal presidente della Cassazione, Ernesto Lupo — ha cominciato a mettere in dubbio «la compatibilità con gli standard internazionali, dando un giudizio negativo e sollecitando l’allungamento dei tempi di prescrizione». Le opzioni sono tante: si può scegliere di far scattare l’orologio della prescrizione dal momento in cui un reato venga scoperto anziché (come oggi) dalla sua data di commissione; o mantenere l’assetto attuale ma congelare il corso della prescrizione dopo la richiesta di processo (tesi del presidente della Corte d’Appello milanese Canzio), o dopo il rinvio a giudizio (come proposto sul Corriere dal procuratore di Roma, Pignatone), o almeno dopo la sentenza di primo grado (opzione del pm Gratteri).
Le resistenze già sull’attuale testo in seno al Pdl, indisponibile a dare il via libera all’anticorruzione qualora nel contempo non si legiferi anche su intercettazioni e responsabilità civile dei magistrati, stanno facendo passare l’idea (anche nel governo) che sia già tanto rifiutare scambi sulla giustizia e portare a casa la legge così com’è adesso, con i suoi passi avanti e con le sue lacune. Ma il voler continuare a ignorare una riforma radicale della prescrizione (140.000 procedimenti in fumo ogni anno) indebolisce in partenza qualunque altra sforzo di settore, compresa l’anticorruzione: basti constatare come la pur plausibile modifica dell’attuale concussione in due fattispecie diverse, seppure non determini le «salvaRuby» o «salvaPenati» che sinistra e destra reciprocamente si rinfacciano a sproposito nei casi concreti dei due processi, combinata agli attuali tempi di prescrizione influirà di certo sensibilmente su molti altri (meno «mediatici») processi di tangenti sparsi per l’Italia.
Oggi il testo approvato alla Camera arriva al Senato per la discussione in Commissione. C’è tutto il tempo per farne un vero fattore di competitività da esibire davanti all’Europa e ai mercati, anziché una medaglietta da appuntarsi al petto ma di latta.

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