Chi ha paura di Antonio Ingroia?

24 Lug 2012

Chi ha paura di Antonio Ingroia? Perché il leader di un partito si spinge a dire che, se fosse indagato da lui, avrebbe timore? Perché, dopo le numerose contumelie, Antonio viene definito pazzo da un senatore imputato a Palermo? Cosa si contesta a Ingroia? E intanto la procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio per Riina, Provenzano, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino e Nicola Mancino

Chi ha paura di Antonio Ingroia? Perché il leader di un partito si spinge a dire che, se fosse indagato da lui, avrebbe timore? Perché, dopo le numerose contumelie, Antonio viene definito pazzo da un senatore imputato a Palermo? Cosa si contesta a Ingroia?
Lo conosco da più di 20 anni, sono suo amico e ho sempre ammirato la sua altissima professionalità, il rigore e la capacità di andare fino in fondo in tutte le sue inchieste, fra cui alcune delle più delicate della Procura di Palermo: i processi a Contrada, all’ex senatore Inzerillo e a Dell’Utri, per citare solo i più noti. Questo impegno lo ha sempre portato a una sovraesposizione personale e mediatica. Spesso i commentatori non imparziali (la stragrande maggioranza), più che contestare il contenuto dei processi, la valenza delle prove, attaccavano Antonio con considerazioni personali, pesanti apprezzamenti e accuse fra le più cocenti per un magistrato: uso politico della giustizia, follia, finalità eversive.
I progressi dell’indagine sulla trattativa, che fa da sfondo alle stragi e in modo particolare a quella di via D’Amelio, hanno segnato il punto più alto (e più intollerabile) degli attacchi. Per difendersi, rimanere indifferente e non farsi travolgere dalla logica dello scontro diretto e permanente, Antonio ha scelto la via dell’autodifesa pubblica con interviste, scritti, partecipazioni a manifestazioni, programmi tv e radio, dibattiti anche marcatamente di parte e di partiti. E lì ha sempre cercato di ragionare sul fondamento delle sue inchieste, senza mai parlare apertamente del loro contenuto, semmai fornendo un punto di vista ragionato e autorevole sulle ragioni per le quali non si può, in una democrazia compiuta, fermarsi di fronte nell’accertamento della verità dei fatti-reato, anche quando investono persone che occupano cariche pubbliche di grande rilievo.
Il nostro sistema giudiziario, fondato sul principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che ha come indefettibile corollario quello della obbligatorietà dell’azione penale, impone a tutti i Pm di procedere nel pieno rispetto delle leggi e prima ancora della Costituzione. La migliore riprova della bontà delle inchieste di Ingroia sta nell’analisi dei loro esiti. Contrada è stato condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa; così anche Inzerillo; Dell’Utri deve ancora affrontare il giudizio di rinvio deciso dalla Cassazione, dopo una doppia condanna nel giudizio di merito. L’esistenza della trattativa, quale sfondo fosco delle stragi del 1992-’93, è stata confermata in una sentenza della Corte di Assise di Firenze… Ce n’è abbastanza per dire che Igroia è un bravo magistrato che non prende lucciole per lanterne: le sue ipotesi accusatorie non sono campate in aria, il complesso probatorio acquisito ha una sua piena dignità, al punto da dovere essere sottoposta all’esame dei giudici.
Ma allora cosa si contesta a Ingroia? Perché molti ambienti politici continuano ad additarlo come un esempio negativo di magistrato di cui diffidare e avere paura? Anche in certi ambienti giudiziari, locali e nazionali, l’attività e l’esposizione mediatica di Antonio non è proprio apprezzata, anzi spesso è criticata più o meno apertamente. Come nei periodi più bui della campagna di delegittimazione del “pool antimafia” di Falcone e Borsellino, in alcuni settori dell’establishment politico e giudiziario Antonio è inviso se non odiato. Eppure è uno dei magistrati più popolari e apprezzati d’Italia, almeno da parte di amplissime fasce di quell’opinione pubblica attenta e vigile che ha perso del tutto la fiducia in quei rappresentanti della politica impresentabile, autoreferenziali, lontani dalla gente e dal suo bisogno di cambiamento e trasparenza. E che vede in Ingroia un personaggio fuori dal comune, una speranza collettiva per affermare i principi dello Stato di diritto.
Perciò affiorano sempre più frequenti allusioni a suoi presunti interessi politici e “di parte”: paradossali a proposito di una persona normale come Antonio, grande magistrato, attento, rispettoso delle leggi, per nulla disposto a svendere i suoi principi per strumentalizzare il suo lavoro. Cosa spaventa i suoi detrattori? Forse la sua “normale” onestà? La sua incrollabile fede nell’uguaglianza e nella legge? Mi sono convinto che chi teme Antonio ha ben chiara una sua dote, particolar e rara, che ho trovato solo in Giovanni Falcone: la stoffa del leader. Quella di chi fa un lavoro difficile, di grande responsabilità, con serietà e professionalità, trascinando tutti coloro che lavorano con lui. E la capacità di farsi apprezzare, comunicare e padroneggiare i mezzi d’informazione: nei dibattiti tv e non, difficilmente soccombe dinanzi ai professionisti dei media, agli interlocutori urlanti e inconcludenti.
Come tutti coloro che hanno la stoffa del leader, Antonio suscita sentimenti contrastanti: l’invidia e la gelosia coltivate attraverso campagne di denigrazione e delegittimazione, furibondi attacchi personali o, peggio, frasi sussurrate nei corridoi per tentare di isolarlo, renderlo inviso a chi lo frequenta, minare la sua credibilità nella speranza di suscitare sfiducia nelle sue capacità professionali. Se tutto ciò avvenisse in un paese normale, poco male: sarebbe solo l’innocuo frutto del contrasto personale tra uno stuolo di mediocri e un serio e onesto servitore dello Stato. Ma purtroppo l’Italia delle trattative e delle stragi di mafia è un paese pericoloso, che vuole crescere nella mediocrità e nell’ignavia, e preferisce convivere con la mafia piuttosto che lottare per sconfiggerla. E la Sicilia è ancora meno normale, e Palermo lo è ancora meno. Ecco perché Antonio ha scelto di difendersi parlando: ha ben presente la pericolosità di Palermo, della Sicilia e del Paese, per questo si è affidato alla gente, ha comunicato con schiettezza e onestà chi è, come interpreta il suo ruolo di magistrato, su quali principi fonda il suo lavoro e sua stessa vita. E la gente lo ha accolto. Il potere sembra invece volere espellerlo, quindi la sua posizione è estremamente complessa e rischiosa.
Ma, siccome ha la stoffa del leader, non importa se si prende una parentesi di un anno per fare altrove ciò che fa egregiamente qui. Scelga liberamente cosa fare, nessuno tra coloro che lo apprezzano dirà che fugge: ciò che dirà chi non lo apprezza non ha alcuna importanza. L’offerta fattagli dall’Onu per un incarico di grande responsabilità in Guatemala conferma le sue qualità: per quel ruolo non serve solo un buon magistrato (l’Onu ne troverebbe a bizzeffe); occorre anche la capacità di essere e apparire credibile, di farsi seguire dai propri collaboratori. In una parola, la stoffa del leader. Antonio ce l’ha: in Guatemala l’han capito e vogliono averlo con sé. Anche qui l’abbiamo capito e per questo molti lo temono. Io lo vorrei ancora qui e vorrei chiedergli di rimanere. Ma non al prezzo che è costretto a pagare oggi. Non con i rischi ai quali mi sembra esposto. Perché lo voglio ancora qui quando avrà finito la sua missione in Guatemala.

* L’autore è procuratore aggiunto e segretario ANM Palermo

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