Il ritorno della politica dopo l’emergenza

19 Lug 2012

Un nuovo “ismo” è tra noi, il “montismo”, il cui motto è, per l’appunto, “stabilità”: parola-chiave del momento che viviamo. Vincere elezioni e dare al paese un governo e una stabilità politica: questo il motto della politica sana.

CON la svolta impressa dal Presidente della Repubblica quando è nato il “governo dei tecnici”, potevano aprirsi due scenari: nell’uno, esso sarebbe stato il frutto dell’emergenza, come tale destinato a lasciare il campo una volta esaurito il suo compito; nell’altro, avrebbe rappresentato un’alternativa stabilmente valida alla democrazia dei partiti, quanto meno a quella di fatto realizzatasi in Italia sotto la vigente formula costituzionale parlamentare. Non si sapeva dove si sarebbe andati a parare. Si sapeva invece che molto sarebbe dipeso dalla capacità dei partiti di rinnovare se stessi e il sistema delle relazioni politiche, in maniera tale da poter fronteggiare l’emergenza economico-finanziaria e sociale che è stata la ragione originaria di quell’anomalo governo.
Oggi, per una serie di cause, prima fra queste la mancata realizzazione di quella condizione, nel permanere dei fattori critici che avevano portato a quell’innovativa scommessa di governo, il secondo scenario sembra avere fagocitato il primo. L’eccezionalità sembra, per così dire, essersi normalizzata. Anzi, c’è chi ne auspica un’indefinita durata in nome della tanto invocata stabilità, una condizione che la politica dei partiti non è in grado di assicurare. Un nuovo “ismo” è tra noi, il “montismo”, il cui motto è, per l’appunto, “stabilità”: parola-chiave del momento che viviamo. Un’ottima cosa che, nelle attuali condizioni, comporta però l’accantonamento o l’affievolimento di ciò che, in democrazia, dovrebbe essere tenuto stretto: la dialettica politica, cioè il diritto-dovere di ciascuno, rispetto ai problemi comuni, di assumere le responsabilità che gli competono secondo la propria visione delle cose, nell’economia, nella cultura, nelle professioni, nel comune essere cittadini, anche a costo di contrasti e conflitti.
Questo accantonamento della politica è pericoloso, in sé e in prospettiva, anche per la stabilità che dovrebbe garantire. Prefigura la morsa di due speculari posizioni estranee alla politica (anti- o a-politiche), diverse, anzi opposte nelle premesse, ma convergenti nel risultato. Per l’una, il governo è cosa tanto banale che chiunque può prenderselo in mano; per l’altra, è cosa tanto alta che lo si deve riservare a pochi esperti. In entrambi i casi, la politica e i partiti politici sono estromessi dal governo. Antipolitica populista, potremmo dire, la prima; a-politica tecnocratica, la seconda. Due visioni opposte, convergenti nel prodotto negativo – l’accantonamento della partecipazione alla politica nazionale, attraverso
lo strumento partitico – ma radicalmente divergenti nell’aspirazione positiva: il governo d’improvvisati dilettanti oppure di esperti di tecniche di settore.
Se si ascoltano gli umori diffusi, è facile accorgersi che le due prospettive, pur contrapposte, anzi: proprio perché contrapposte, finiscono per alimentarsi vicendevolmente, producendo, per vie diverse ma confluenti, un minaccioso rumore di fondo. Il timore nei confronti dei demagoghi dilettanti alimenta il sostegno – un sostegno difensivo, arroccato, qualche volta arrabbiato – nei confronti degli esperti. Ma, d’altra parte, gli esperti sono, come sempre, identificati quali agenti dell’establishment, una cosa visibile ma sfuggente, che chiunque può definire come vuole, dove si vedono sempre le trame e gli intrighi opachi che si vogliono vedere, a vantaggio dei pochi e a danno dei molti. Gli “ottimati” sempre suscitano reazioni ripulsive, rancorose, in coloro che sono o si sentono esclusi dalla loro cerchia.
Queste due posizioni non solo comportano il rifiuto radicale l’una dell’altra, ma contengono evidenti tendenze integriste e intolleranti. Entrambe si considerano portatrici di salvezza e considerano l’altra un pericolo. L’una crede di vedere nell’attuale esperienza di governo degli esperti solo l’estremo tentativo di perpetuare una concentrazione d’interessi, l’establishment, appunto, che, di degrado in degrado, di corruzione in corruzione, di cecità in cecità, ci ha portato negli anni a un punto senza sbocco. L’altra crede invece di vedere nella critica, di cui è oggetto, anarchismo, ribellismo, distruzione, irresponsabilità. Un conflitto latente: che sia questa la grande frattura, con la quale dovremo fare i conti nel futuro?
Già ora ne vediamo un segno nella tendenza al settarismo: purezza contro corruzione. Ogni scandalo pubblico, che pur giustamente si denuncia, si volge in motivo di denigrazione generalizzata, con l’intento di dimostrare così l’implosione inevitabile d’un’epoca e l’imbroglio di chi si adopera “tecnicamente” per una sorta di sopravvivenza forzata d’un sistema che non ha prospettiva e che tanto più perdura, tanto maggiore danno produce. Ma, l’altro segno è la refrattarietà alla critica e la tendenza all’isolamento. Ciò che conta è il risultato, non il consenso. La tecnica in politica, inevitabilmente e per la stessa sua natura, tende alla neutralizzazione forzata dei
conflitti. In questo, è l’esatto contrario della democrazia, che è invece disputabilità delle scelte e la valorizzazione dei conflitti, quali motori della politica. Dai non tecnici, i tecnici, per lo più, si aspettano non utili contributi, ma semplicemente intralci. Così, abbiamo visto l’insofferenza verso i partiti, corretta prontamente, anche per il necessario sostegno dei loro voti in Parlamento, ma pur sempre insofferenza. Così abbiamo assistito alla superficiale liquidazione della prassi della concertazione sindacale, quasi che si sia trattato e si tratti, sempre e necessariamente, di pratica corporativa. Così, in questo duplice disincantamento verso le maggiori forme di vita pubblica organizzata, si è manifestata una sorta di distanza “tecnica”, per l’appunto, dai problemi di tenuta del tessuto sociale. Così, vediamo operante la sindrome di chi considera se stesso e le sue azioni come doverosa conseguenza di necessità che non si possono contraddire: i mercati vogliono; lo spread; costringe; c’è la guerra e in guerra si combatte, non si discute. La guerra! Non è solo un modo di dire un poco enfatico: è l’estrema risorsa, l’alternativa al consenso, quando è a rischio la coesione sociale. Ma è una guerra di cui non conosciamo il nemico. Non si fanno guerre contro “cose” impersonali come il debito pubblico, la disoccupazione, la stretta creditizia, il crollo dei consumi, i mercati speculativi, ecc. Contro queste cose si fanno politiche, non guerre. Evocare scenari bellici significa strozzare le discussioni, alzare la tensione e chiedere compattezza a ogni costo. Nel contempo, però, si alimenta la logica dell’amico-nemico che produce l’effetto opposto alla stabilità. Ecco perché gli esperti che governano con la tecnica possono portare benefici nel breve, brevissimo, periodo, ma alla lunga sortiscono l’effetto opposto a quello cui essi credono di dedicare i loro sforzi. La stabilità, in democrazia, non è una funzione tecnica, ma politica.
Il clima della fine di questa legislatura, è pesante. Chi ha il privilegio di poter parlare all’opinione pubblica in nome di qualcosa che abbia a che fare con cultura e politica non deve lasciarsi prendere dalla militanza per partito preso, da una parte o dall’altra. La cultura è capacità di idee generali elaborate criticamente e la politica è, sotto ogni aspetto, cosa diversa da una guerra. Non è una posizione facile. La situazione stessa lo tira di qua e di là. Se lo si trova a dire cose che piacciono, è un amico; se cose che non piacciono, è un nemico. Se poi tace, è ugualmente un nemico che, semplicemente si è lasciato intimorire. Invece, occorre mantenere la giusta distanza e resistere alla chiamata alle armi, pensando all’immediato futuro. Possiamo immaginare che lo schema che domina questa fine legislatura si rinnovi nella prossima? Non è un incubo la sola idea d’un governo non espressione d’una solida base politica e non legittimato da un voto popolare; e d’un parlamento formato da partiti impotenti, quotidianamente sotto la sferza di diecine o centinaia di deputati e senatori eletti sull’onda di sentimenti elementari pre- o anti-politici? Noi pensiamo, forse, che la nostra attuale esperienza di governo degli esperti, nel vuoto dei partiti, sia una novità, un’escogitazione di cui andare fieri, un esempio di democrazia post-moderna. Non è affatto così. La storia ha conosciuto situazioni paragonabili molto da vicino alla nostra. E tutte hanno avuto, in breve tempo, esiti non positivi. Qui è, sottintesa, la domanda che deve essere rivolta ai partiti politici, soprattutto in quanto ve ne sono alcuni che, per puro interesse particolare, preparano le condizioni del perdurare di questa condizione: perduranza che, d’altro canto, si dovrebbe sapere essere illusoria speranza. Vincere elezioni e dare al paese un governo e una stabilità politica: questo il motto della politica sana. Sembra invece che vi sia chi lavora proprio al fine opposto, cioè per una legge elettorale che non faccia né vincitori né vinti e possa permettere di dire, poi, che si è costretti a stare tutti (o quasi tutti) insieme sotto l’ombrello protettivo d’un governo che, venendo da fuori, permetta loro di sopravvivere ancora per un po’, vivacchiando: uno scenario da cupio dissolvi.

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