Diaz: dei delitti e delle pene

06 Lug 2012

Il verdetto della Cassazione in merito alla violenza di Stato, perpetuata ai danni di persone che si trovavano totalmente indifese e in uno stato di evidente inferiorità all’interno della scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, deve necessariamente indurre il paese, nonché la politica, a prendere finalmente in considerazione una riforma profonda delle forze dell’ordine, in una direzione democratica.

Il verdetto della Cassazione in merito alla violenza di Stato, perpetrata ai danni di persone che si trovavano totalmente indifese e in uno stato di evidente inferiorità all’interno della scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001, deve necessariamente indurre il paese, nonché la politica, a prendere finalmente in considerazione una riforma profonda delle forze dell’ordine, in una direzione democratica. Questa deve aspirare ad un progetto di modernizzazione “interna”, attraverso la formazione di una polizia che, nonostante la smilitarizzazione non ha messo in atto un vero cambiamento diretto alla tutela dei cittadini.
D’altra parte si commenta da sé il divieto di pronunciarsi sul film Diaz, da parte dei vertici della polizia ai sottoposti; divieto che personalmente definirei inutile, perchè avendo fatto parte di tale apparato, posso garantire che l’humus interno è talmente impregnante, che nessuno che ne faccia parte si sognerebbe di “parlare” pubblicamente di certe verità scomode. Non che non manchino i dissensi (come nel film si è visto), ma chi non si adegua non ha possibilità di “resistere” all’interno di tali apparati.
Non è superfluo ricordare i casi di Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni morto a causa delle percosse degli agenti di polizia (per non parlare degli insulti degli agenti condannati nei confronti della madre di Aldrovandi in conseguenza alla sentenza di condanna). Il caso di Stefano Cucchi massacrato quando era in stato di detenzione. Stefano Gugliotta, il venticinquenne che dopo essere stato percosso dalle forze dell’ ordine,  ha riportato ferite sulla testa, ematomi sulle gambe, lividi da manganelli sulla schiena e un dente rotto, oltre ovviamente uno stress psicologico.
Un fatto “storico”, la struggente vicenda di Giuliana Masi uccisa a Roma il 12 maggio 1977 a soli 19 anni. Sembrano lontani gli anni ’70, ma fu proprio in quegli anni che si iniziò a parlare di forze dell’ordine al servizio del cittadino, di smilitarizzazione della P.S. In qualche modo pareva essersi avviato un nuovo percorso più democratico, per quanto fragile fosse. Poi i fatti di Napoli 17 marzo 2001 prima del G8 a Genova, e a Genova stessa poco dopo, quando giovani manifestanti furono illecitamente arrestati, picchiati, vessati e torturati. Questi fatti hanno avviato il paese a una regressione repentina dello stato di diritto.
Domandiamoci quale torsione antidemocratica la società italiana ha subito dai lontani anni settanta; domandiamoci che Stato è quello che permette tali violenze offensive della dignità e dell’incolumità della persona. Violenze alimentate dall’impunità, dalla tacita legittimazione politica e culturale fuori e dentro gli apparati dello Stato.
Amnesty International ha definito “incompleto” il verdetto sulle violenze avvenute a Genova nel 2001, “non riflettono la gravità dei crimini accertati”.
Questa sentenza è ancora una pagina oscura della storia italiana, perché non è pensabile ritenere sufficiente l’interdizione dal servizio per un certo periodo più o meno lungo. Periodo in cui i colpevoli continuano ad essere garantiti come dipendenti dello Stato (con tutti i vantaggi che questo comporta, stipendio compreso).
Aver provocato un danno irreversibile alle persone e alla democrazia, dovrebbe essere considerato per le forze dell’ordine un fatto di tale importanza, da non consentire (anche per la salvaguardia dell’immagine di coloro, tanti, che svolgono questo mestiere con serietà e dedizione), a chi si rende responsabile di violenze abiette e offensive dell’incolumità delle persone, di prestare ancora servizio all’interno dello Stato e delle sue istituzioni. Fare il contrario, riammetterli in servizio, anche se dopo anni, equivale ad accettare che la “linea grigia” in casi che qualcuno ha il potere di ritenere “eccezionali”, può essere varcata, sospendendo lo stato di diritto.
E’ fondamentale tenere presente che una delle forme di “habeas corpus” è proprio l’immunità da torture e da pene corporali. E che questo non è un problema di carattere puramente teorico e appartenente a modelli classici come la tradizione settecentesca, del “garantismo penale”, ma si configura come un problema di grande attualità. Drammaticamente attuale, dati i reati incontestabili che avvengono troppo spesso da parte di rappresentanti dello Stato. Considerato che le sevizie su arrestati e detenuti in un paese di democrazia avanzata come il nostro, sono numerosi. Infatti le torture, come nel caso di Bolzaneto e Diaz, nonché quelle nelle carceri, perpetuate fino anche a causarne la morte, sono il frutto di esplicite direttive. Rese possibili dal disprezzo assoluto per il diritto e per la persona, e dalla logica di potere e violenza che in questi anni la politica ha volutamente e colpevolmente riportato in auge. Anche attraverso il suo “linguaggio”, come nelle migliori tradizioni illiberali e dittatoriali, si è perfino arrivato a parlare di DASPO per le manifestazioni politiche. Non esiterei a dire che siamo in presenza di una velocissima corrosione dei diritti umani, si pensi alle manganellate della polizia agli operai che manifestano contro la riforma del lavoro o le delocalizzazioni, si pensi alla gestione scellerata della questione TAV, dove la politica non ha saputo fin dall’inizio implementare politiche pubbliche che agevolassero il dialogo. Dove i giornali si sono sbrodolati in lodi al poliziotto che, provocato da un no Tav, non ha fatto uso della forza; l’equilibrio e la consapevolezza del ruolo, nonché del potere che detiene chi fa questo mestiere, a qualsiasi livello di gerarchia, deve essere il primo requisito irrinunciabile.
E forse non è un caso che negli Stati Uniti si era, tempo fa, aperto un dibattito sull’ammissibilità della tortura per casi “eccezionali”, come ad esempio ottenere informazioni importanti da un terrorista. Attenzione, perché i casi di “scuola”, sono sempre eccezionali, contrariamente ai casi pratici, dove una volta legittimata eccezionalmente la violenza, essa rischia di diventare una pratica ordinaria. Peggio se nelle mani di governanti con tentazioni autoritarie volte a “placare il dissenso”. Penso alle cariche sui manifestanti che recentemente a Torino contestavano la ministra Fornero.
E’ proprio per non consentire deroghe al principio, che le “eccezioni” sono state escluse dal diritto come cause di giustificazione della violenza che, in base all’art. 2 secondo comma della Convenzione del 10 dicembre 1984, “nessuna circostanza eccezionale, di qualsiasi natura, compresi lo stato di guerra o la minaccia di guerra, la instabilità politica interna o qualunque altra pubblica emergenza, potrà giustificare la tortura,. Né può essere invocato a tal fine, aggiunge il comma 3 medesimo art., “l’ordine di un superiore o di una pubblica autorità”. Fa riflettere a tal proposito che l’Italia abbia rifiutato l’introduzione del “reato di tortura”, senza il quale queste situazioni sono destinate a ripetersi in base alla volontà di chi governa e che magari non tollera il dissenso. La prima difesa della civiltà della nostra civiltà giuridica, è la riaffermazione che nel senso comune debba essere sempre rinnegata la violazione della persona, questo soprattutto contro i cedimenti demagogici della ragione, perché l’ interazione che sussiste tra diritto e senso comune che può preservarci contro il ripetersi di tali pratiche vergognose, la cui esistenza va ben oltre le aperte denunce, di fatto scoraggiate dal rischio che corrono i denuncianti di essere perseguiti per calunnia. E’ necessaria una stigmatizzazione e punizione, come delitto di “tortura”, di qualunque atto consistente, secondo la definizione dell’art. 7 comma 2 lett. e dello Statuto della Corte penale internazionale adottato a Roma il 17.7.1998, “nell’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, a una persona di cui si abbia la custodia o il controllo”.
E’ evidente che in Italia è venuta a mancare questa garanzia, in quanto si applicano ai casi di vera e propria tortura, figure di reato del tutto sproporzionate alla loro gravità, come il generico “abuso di autorità” previsto dall’art. 608 del codice penale, o le comuni percosse e lesioni personali che sono punibili se lievi, a querela di parte, in contraddizione con l’indisponibilità dei diritti e la natura pubblica degli interessi lesi. Siamo difronte a una inaccettabile lacuna, non solo su un piano teorico, quale violazione della garanzia positiva dell’obbligo di punire come delitto la tortura, in Italia, contemplata dall’art. 13 comma 4 della Costituzione, in base al quale si afferma che “va punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà” . Da sottolineare che in poche materie come questa è peculiare la stigmatizzazione penale che ha un esplicito valore preformativo del senso comune e della deontologia professionale delle forze di polizia. Ha il valore di rimuovere eventualmente la cattiva coscienza del legislatore, dei giudici, e non meno della pubblica opinione non disposti a riconoscerla, riconoscere l’orrore e sollecitarne il rifiuto come vergogna indegna di uno stato di diritto, di un paese che abbia la pretesa di definirsi civile e democratico che contempli la sacralità e la inviolabilità del corpo e della psiche di una persona privata della libertà personale, alla quale non dovrebbero mai venire a mancare queste garanzie, chiunque l’abbia in custodia.

* Loredana Biffo è ricercatrice sociale, giornalista e fa parte del circolo LeG Torino

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