Il consigliere del Colle contro i pm “A Palermo fanno solo confusione stavolta non arriveranno a niente”

21 Giu 2012

Telefonate di Mancino ad “altre cariche dello Stato”, giallo sugli omissis

Più che un consigliere giuridico si è rivelato un suggeritore. Astioso con i magistrati di Palermo. Diffidente nei confronti del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Negazionista sul patto fra Stato e mafia. Dal Quirinale Loris D’Ambrosio seguiva ogni sviluppo dell’inchiesta sulla trattativa, sperava in un «coordinamento» che di fatto sfilasse ogni potere d’indagine ai pm siciliani e ragionava sul da farsi con Nicola Mancino, che giorno dopo giorno sembrava scivolare sempre di più in un vortice di sospetti.
Le telefonate intercettate fra l’ex ministro dell’Interno e uno dei collaboratori più vicini al presidente della Repubblica — depositate nel procedimento contro dodici personaggi coinvolti nell’accordo per fermare le stragi del 1992 — stanno scoprendo un eccessivo attivismo al Quirinale intorno alla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il nome di Giorgio Napolitano. Molte intercettazioni sono ormai pubbliche. Altre sono coperte da omissis. Innanzitutto, quella fra Mancino e il capodelegazione dell’Udc al Parlamento europeo Giuseppe Gargani, poi alcune fra l’ex ministro dell’Interno e «altre cariche dello Stato ». Chi sono gli interlocutori di Mancino? Gli atti sono secretati. Di scoperto, per ora ci sono quelle lunghe conversazioni fra l’ex ministro indagato per falsa testimonianza e il consigliere di Napolitano. Pronunciano spesso la parola «avocazione» riferendosi all’indagine palermitana, commentano le mosse dei pm, si lamentano del procuratore Grasso, citano il Capo dello Stato.

NON SI CAPISCE QUELLO CHE FANNO
È il 25 novembre 2011, Mancino riceve una convocazione per un interrogatorio a Palermo.
Mancino: (M):
«Dal solito Di Matteo (Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che indagano
sulla trattativa, ndr)».
D’Ambrosio (D):
«Ma questi fanno un passo avanti e due indietro eh, perché gli conviene tenere aperte queste voragini per poi infilarci ogni volta la cosa che gli fa più comodo in quel momento, mi sembra abbastanza chiaro insomma… ricicciano sempre le stesse cose, non si capisce proprio quello che fanno».
Il 22 dicembre, il consigliere del Presidente è più esplicito.
D:
«Si faccia un Natale tranquillo, tanto questi non arriveranno a niente, stanno facendo solo confusione».
Il 12 marzo, Mancino insiste ancora con D’Ambrosio per un intervento del Quirinale.
M:
«Non si sa dove vogliono arrivare questi, che vogliono fare».
D:
«No, ma è chiaro che non si capisce proprio, ma non si capisce neanche più la trattativa, se devo essere sincero. Io l’oggetto della trattativa mica l’ho capito, mi sfugge completamente».
Il 5 aprile, il consigliere giuridico di Napolitano prima manifesta altre sue opinioni non proprio lusinghiere sui pm di Palermo, poi critica il procuratore antimafia.
D:
«Questo è il problema vero, quindi quello
per cui deve badare… come si chiama? Grasso. E se non ci bada lui il procuratore generale è il coordinamento minimo, non so se mi sono spiegato. Quello minimo, insomma». E ancora.
D:
«Non è l’avocazione quella che si chiede a Grasso, Grasso non si può nascondere dietro la mancanza del potere dell’avocazione, perché nessuno gli chiederà».

NOI NON LA MANDIAMO ALLO SBARAGLIO
È sempre il 5 aprile del 2012. La lettera del segretario generale del Quirinale al procuratore generale della Cassazione — sollecitata da Mancino per chiedere un «coordinamento fra le procure» — è partita da appena un giorno e D’Ambrosio legge il testo a Mancino.
D:
«Per incarico del presidente della Repubblica trasmetto la lettera con la quale il senatore Mancino si duole del fatto che non sono state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla cosiddetta trattativa». Poi spiega all’ex ministro il senso dell’iniziativa.
D:
«Già c’era una situazione che il presidente aveva detto all’Adunanza… ha rilevato e percepisce questa mancanza di coordinamento e ti dice: esercita i tuoi poteri anche nei confronti di Grasso. Perché qui il problema vero… Grasso si copre, questa è la verità, perché con la storia dell’avocazione, no? Perché è una gran cretinata l’avocazione, perché lui la prima cosa a cui deve pensare è il coordinamento».
M:
«Esatto, esatto».
D:
«Perché il minimo del coordinamento è questo, adesso vediamo come lo risolverà Ciani (il nuovo pg della Cassazione, ndr), quindi quello che voglio dire… noi non abbiamo mandato lei allo sbaraglio».

I CARABINIERI A CENA CON DELL’UTRI
Gli investigatori della Dia, su mandato dei pm, intercettano anche i due ufficiali dei carabinieri — il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno — indagati nell’inchiesta sulla trattativa. È il 25 novembre quando De Donno telefona a Mori e lo informa che sta organizzando una cena con il senatore Marcello Dell’Utri.
De Donno (D):
«Gli ho detto guardi, ma mi farebbe piacere una sera se andiamo a cena col generale. Ho detto, guardi, a questo punto essendo coindagati».
Mori (M):
«Appunto».
De Donno poi chiama Dell’Utri e si complimenta della sentenza della Cassazione che ha ordinato per lui un nuovo processo d’appello. (Per l’utilizzo di questa conversazione, la Procura dovrà chiedere l’autorizzazione al Senato). Il 10 marzo, De Donno e Mori commentano al telefono la sentenza Dell’Utri.
D:
«Il problema sarà vedere adesso quanto la Procura di Palermo vorrà».
M:
«Veramente una mazzata terrificante per loro».
D:
«Mostruosa, mostruosa, signor generale, mostruosa».
M:
«Sono contento per lui».
D:
«Alla faccia dei palermitani, se mi ascoltano… dico, sono contento, questo tutto sommato dimostra che forse in questo paese sia rimasta… sono veramente felice, perché sì è vero ogni tanto qualcuno serio c’è. Questo dimostra che sta crollando tutto, piano piano comincia a crollare questo cazzo di discorso».

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