Mancino e le Telefonate con il Quirinale

19 Giu 2012

Dopo aver deposto al processo contro il generale Mori, accusato della mancata cattura di Provenzano, l’ex ministro Nicola Mancino era agitato. Tanto da chiamare più volte il consigliere del Colle Loris D’Ambrosio

Dopo aver deposto al processo contro il generale Mori, accusato della mancata cattura di Provenzano, l’ex ministro Nicola Mancino era agitato. Tanto da chiamare più volte il consigliere del Colle Loris D’Ambrosio per evitare i faccia a faccia con Martelli e Scotti.
Era molto agitato, Nicola Mancino. Soprattutto dopo la sua deposizione al processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato della mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. Al termine di quell’udienza, il 24 febbraio scorso, il pubblico ministero Nino Di Matteo, che conduceva anche l’indagine sulla presunta trattativa fra Stato e mafia, aveva dichiarato: «Emergono evidenti contraddizioni tra diversi esponenti delle istituzioni, riferiscono cose completamente diverse, quindi qualcuno mente».
Un campanello d’allarme, per l’ex ministro dell’Interno, indicato come ipotetico mentitore: o lui o il suo predecessore al Viminale Scotti, o l’ex ministro della Giustizia Martelli; lui che era stato anche presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Con la dichiarazione del pm si profilava una richiesta di confronti tra Mancino e Martelli, e tra Mancino e Scotti, davanti al tribunale. Ipotesi non gradita all’ex ministro, al punto di telefonare con insistenza al Quirinale, per parlare col consigliere giuridico di Napolitano Loris D’Ambrosio. Voleva sapere come evitare quei «faccia a faccia», ma D’Ambrosio spiegava che bisognava aspettare le mosse del pm.
«Io per adesso posso parlare col presidente (probabilmente Napolitano, ndr)… lui se l’è presa a cuore la questione… non lo so… Francamente la ritengo difficile», diceva D’Ambrosio, che prima di approdare al Quirinale con Ciampi ha lavorato a lungo al ministero della Giustizia. Anche insieme a Giovanni Falcone. E dopo la strage di Capaci, nel 1992, scrisse buona parte del famoso articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che istituiva il «carcere duro» per i mafiosi, poi divenuto oggetto della presunta trattativa.
Mancino immaginava di intervenire su Messineo, il procuratore di Palermo, e sul procuratore nazionale antimafia Grasso, ma D’Ambrosio spiegava che i pm in udienza sono autonomi, non rispondono al loro capo. «L’unica cosa è parlare con il procuratore nazionale antimafia», aggiungeva. Lui aveva potere di coordinamento sulle inchieste tra i diversi uffici, e della trattativa si stavano occupando, oltre ai magistrati palermitani, anche quelli di Caltanissetta e Firenze. Ma Mancino era preoccupato dai possibili confronti in tribunale.
«Il collegio lì è equilibrato — sosteneva —, come ha ritenuto inutile quello con Tavormina (l’ex capo della Dia che aveva smentito Martelli, ndr) potrebbe rigettare per analogia». D’Ambrosio: «Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…». E ancora: «Più facile è parlare con il pm…». Mancino concluse che bisognava far intervenire Grasso: «Io gli voglio parlare perché sono tormentato». Poi accadde che i pm chiesero i confronti ma il tribunale decise di non farli.
Con il magistrato in servizio al Quirinale al quale chiedeva suggerimenti e intercessioni, l’ex ministro aveva stabilito una consuetudine nei quattro anni in cui guidò il Csm per conto di Napolitano. Il 22 dicembre già gli aveva parlato di Grasso, incontrato la sera prima a una cerimonia pre-natalizia, e riferiva: «Mi ha detto: “Quelli lì (evidentemente i pm di Palermo, ndr) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione”, e io ho detto: “Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati”». E il 13 marzo scorso, ancora Mancino sollecitava il consigliere di Napolitano: «Veda un po’ se Grasso decidesse di ascoltare anche me, in maniera riservatissima, senza che nessuno ne sappia niente». E D’Ambrosio: «Va bene, tanto domani lo devo vedere…».
Prima di questa fibrillazione, a novembre dello scorso anno, durante un’altra telefonata D’Ambrosio aveva discusso con l’ex ministro di alcuni eventi del ’92-’93 dei quali era stato un testimone. Il punto chiave, secondo D’Ambrosio, era la nomina di Francesco Di Maggio a vicecapo delle carceri, avvenuta a giugno ’93: «Fu dirottato con un provvedimento sui generis. Chi ce lo ha mandato?». Il magistrato ricordava di aver visto scrivere il decreto di nomina nella stanza di Liliana Ferraro, la principale collaboratrice di Falcone che gli succedette come capo degli Affari penali, e aggiungeva che in quel periodo i problemi erano due: l’alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi per contattare i detenuti mafiosi e vedere se poteva maturare qualche collaborazione. «Io non credo che Ciccio Di Maggio fosse favorevole all’alleggerimento del 41 bis», aggiungeva. Mancino sosteneva di non aver mai saputo niente di queste dispute e D’Ambrosio spiegava: «Perché l’alleggerimento del 41 bis riguardava Mori, polizia, Parisi, Scalfaro e compagnia». Sui colloqui investigativi e i «rapporti un po’ sconsiderati», invece, gli interessati sarebbero stati «Di Maggio e Mori».
Considerazioni che non tranquillizzavano l’ex ministro il quale, quando i pm di Caltanissetta chiusero la loro inchiesta stigmatizzando il comportamento di alcuni politici di allora, fece altre rimostranze. Stavolta con l’allora procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, che aveva già chiesto il provvedimento dei magistrati nisseni e disse a Mancino: «Comunque io sono chiaramente a sua disposizione. Adesso vedo questo provvedimento e poi magari ne parliamo. Se vuole può venire quando vuole». E Mancino: «Guagliò, così come vengo vado sui giornali…».
Dal Quirinale, il 4 aprile, partì la lettera con la quale si invitava il massimo rappresentante dell’accusa a valutare l’esercizio dei suoi poteri, anche sulla procura nazionale antimafia. Al posto di Esposito stava arrivando il nuovo pg Ciani, e D’Ambrosio l’indomani spiegò a Mancino: «Ho parlato con Ciani, hanno voluto una lettera così fatta per sentirsi più forti…». All’ufficio di Grasso fu chiesta una relazione sul lavoro svolto, che giunse qualche settimana più tardi: il coordinamento era stato assicurato secondo le regole, che non prevedeva né il suggerimento di ipotesi investigative alternative ad altre, né la limitazione dell’autonomia dei pm.

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