La sindrome del Ventennio

24 Mag 2012

Michele Ainis

Il fascismo è morto da un bel pezzo, pace all’anima sua. Ma almeno un lascito continua a sopravvivergli: la sindrome del ventennio. Sta di fatto che ogni vent’anni noi italiani rivoltiamo il mondo come un calzino usato, ripetendo la marcia su Roma. E ogni marcia inaugura una palingenesi civile, poi politica, poi costituzionale, perché infine ridisegna l’architettura delle nostre istituzioni. Ecco, la Costituzione. Per interpretare l’Italia che verrà è da lì che dobbiamo prendere le mosse, dalla nuova domanda di democrazia che in questa fase esprimono in coro gli italiani. Ma sarebbe uno sbaglio interrogare il futuro senza mettere a profitto la lezione del passato.
E allora ricordiamoci anzitutto delle camicie nere, dei fasci littori, del Regime. Il suo manifesto programmatico era inciso nel motto pronunziato da Benito Mussolini nel discorso alla Scala di Milano, il 28 ottobre 1925: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». Da qui un’ideologia totalitaria, di cui Hitler fu il più feroce imitatore. Nazionalista, dapprima con la guerra d’Abissinia, poi con la tragedia del secondo conflitto mondiale. Razzista, fino alla vergogna delle leggi antisemite promulgate nel 1938. E ovviamente intollerante verso ogni opposizione, nemica dei diritti, delle libertà.
Così la vecchia Italia liberale di Giolitti s’inabissò di colpo fra i relitti della storia, senza nemmeno un funerale. Però rimase inalterato, almeno sulla carta, il suo stendardo: lo Statuto albertino del 1848. Il fascismo non si curò mai di rimpiazzare quella nostra prima Costituzione nazionale, dov’era garantita una certa separazione fra i poteri, insieme alla libertà di stampa e al principio d’eguaglianza. Ne prosciugò piuttosto la linfa vitale, lo cancellò di fatto, gli contrappose una ben diversa Costituzione materiale. Inaugurando una tecnica di governo destinata a ripetersi più volte, dal dopoguerra in poi; e sia pure con interpreti assai meno truci.
Vent’anni dopo, è tutta un’altra storia. Anzi: è l’inizio della storia, dopo la Resistenza, la cacciata del tiranno, la pace ritrovata. E questo merito epocale attribuisce ai partigiani il buon diritto di riscrivere le regole del gioco, di forgiare nuove istituzioni. Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Carta repubblicana, con la sua doppia promessa di democrazia e di libertà. Però il 18 aprile dello stesso anno la Dc vince le elezioni, e allora mette la Costituzione in frigorifero: troppo pericoloso, per esempio, battezzare le regioni, dove i comunisti avrebbero potuto impadronirsi del potere locale. Ciò nonostante, e grazie al nuovo clima costituzionale, l’Italia monta sul treno del progresso, l’economia s’impenna, cambiano i costumi.
Sicché sperimentiamo un’altra palingenesi, quella del Sessantotto, del vento che in tutto il mondo scuote le foreste del potere. Ma alle nostre latitudini le rivolte studentesche, e più in generale i fermenti della società italiana, trovano immediatamente una proiezione nelle leggi, nel catalogo dei diritti civili. I primi anni Settanta aprono la stagione in cui la Costituzione finalmente viene attuata, generando i suoi frutti migliori: lo statuto dei lavoratori; il divorzio; la riforma del diritto di famiglia; quella penitenziaria, fiscale, sanitaria (attraverso la creazione delle Usl); la parità fra uomini e donne nei rapporti di lavoro; e qualche anno più tardi la legge Basaglia, che chiuse i manicomi. Senza dire delle riforme organizzative, come la legge del 1970 che da allora in poi ha permesso di celebrare i referendum. O come l’avvio delle regioni, che hanno mutato in profondità il nostro paesaggio pubblico.
Vent’anni ancora, e arriva Tangentopoli. Un altro terremoto. La decapitazione — elettorale e giudiziaria — di un intero ceto di governo. E nella società civile un’ansia di legalità, che però dura appena il tempo d’un fiammifero. Quanto basta per bruciare l’uno dopo l’altro tutti i partiti che fin lì avevano orientato le sorti della Repubblica italiana. Sostituiti, sia a destra che a sinistra, da partiti personali, dove il faccione del leader campeggia in solitudine. Intanto cambia la legge elettorale, lo scenario politico s’adegua al maggioritario, diventa bipolare. Da qui la seconda Repubblica, pur sempre retta tuttavia dalla Costituzione della prima. Perché di nuovo edifichiamo una Costituzione materiale — di stampo plebiscitario e populistico — opposta a quella formale, senza prenderci il disturbo di metterla almeno per iscritto. Come avere due mogli, convocandole a turno per la cena. Una bigamia costituzionale.
Sicché adesso siamo qui, davanti all’ultima curva del circuito. Del resto sono trascorsi altri vent’anni, mentre le analogie con il 1992 suonano a dir poco singolari, dalla crisi economica al fischio delle bombe, dalle ruberie di Stato alla sfiducia nei partiti. Karl Marx diceva che la storia si ripete sempre due volte: prima in tragedia, dopo in farsa. Attenzione, perché stavolta potrebbe succederci il contrario. Per evitarlo, dobbiamo trasferire nella nostra cittadella pubblica la domanda che sale dalla società italiana, altrimenti il tappo finirà per saltare. È una domanda di trasparenza, di morigeratezza, d’eguaglianza. Ma è anche una domanda di democrazia diretta, senza deleghe in bianco ai signori di partito. Il fresco successo del Movimento 5 Stelle sta tutto in questa chiave; ed è una chiave universale, come mostra l’esperienza di Occupy Wall Street negli Usa o dei Piraten in Germania. D’altronde nemmeno il Sessantotto fu una vicenda soltanto nazionale.
Tutto questo non significa che la democrazia rappresentativa vada gettata nel cestino dei rifiuti. Semmai va rafforzata attraverso un più efficace controllo degli elettori sugli eletti, per esempio con la revoca anticipata dei parlamentari immeritevoli, come succede in California e in varie altre contrade. Oppure col divieto del terzo mandato, per restituire la politica a un servizio, anziché a una professione. O ancora con l’iniziativa legislativa popolare vincolante, con il referendum propositivo, con l’abbattimento del quorum in quello abrogativo. Non sono poche le riforme necessarie per assecondare quest’ultima stagione della nostra storia nazionale. Proviamo a scriverle, tanto non dureranno per tutti i secoli a venire. Tra vent’anni suonerà di nuovo la campana.

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